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 2017  novembre 30 Giovedì calendario

Suicidio in diretta con il veleno per il criminale di guerra croato Praljak

Voleva un colpo di teatro, un’uscita di scena drammatica, in diretta tv, consapevole che lo (scarso) interesse verso il processo per crimini di guerra nella ex Jugoslavia, all’Aia, si sarebbe istantaneamente trasformato in un fuoco mediatico irresistibile.
L’ex generale croato-bosniaco Slobodan Praljak, 72 anni, gli occhi iniettati di una furia consapevole – solo lui nell’aula sapeva che cosa stava per accadere – ascoltata la sentenza nel Tribunale penale internazionale, 20 anni di carcere, ha platealmente portato alla bocca una fialetta scura, bevendone d’un fiato il contenuto. «Ho appena ingerito del veleno – ha poi detto ad alta voce ai giudici che lo osservavano esterrefatti – non sono un criminale di guerra. Mi oppongo a questa condanna». Il presidente del tribunale, superata la sorpresa, ha quindi sospeso la seduta e ordinato che si portasse soccorso all’imputato: un’ambulanza lo ha trasportato in ospedale, ma i medici non hanno potuto che constatarne il decesso.
Il generale era uno di sei ex leader politici e militari croato-bosniaci a processo alla Corte dell’Aia. La condanna a 20 anni per Praljak era stata emessa nel 2013, per crimini di guerra commessi in Bosnia e per aver distrutto il ponte di Mostar: ieri l’appello l’aveva confermata ma Praljak ha voluto respingerla con disprezzo, un disprezzo così profondo da rivolgersi addirittura contro se stesso pur di tenere il punto. Immediate le reazioni a Zagabria. Il primo ministro Andrej Plenkovic ha detto che «l’atto di Praljak parla in modo chiaro dell’ingiustizia morale nei confronti di sei croati condannati oggi dal Tpi e nei confronti del popolo croato». Il capo del governo ha proseguito contestando la decisione di una corte «politica» che non aveva «uno straccio di prova» sui fatti contestati. Praljak, in particolare, è stato condannato per non aver impedito – pur sapendo cosa sarebbe accaduto – ai suoi soldati di rastrellare musulmani poi giustiziati. Il generale non aveva mai negato di aver ordinato la distruzione del ponte di Mostar, un gioiello dell’architettura ottomana, abbattuto il 9 novembre 1993 da tre granate sparate dall’esercito croato-bosniaco. «È solo un vecchio ponte (Stari Most, il suo nome in croato, ndr )», aveva commentato Slobodan Praljak.
Il leader di turno della presidenza tripartita bosniaca Dragan Covic, croato, ieri si è augurato «calma e niente panico» perché «la sopravvivenza della Bosnia-Erzegovina dipende dallo status del popolo croato».

Paolo Salom

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Il Vecchio e il Vecchio Bandito. I mostarini musulmani li chiamano sempre così: per il primo, il Vecchio Ponte distrutto, c’è del doloroso rispetto; per il secondo, l’anziano generale sotto processo all’Aia per aver bombardato lo Stari Most, c’era solo del rancoroso disprezzo. Slobodan Praljak non s’è mai pentito di nulla, anzi: «Preferisco un dito della mano di un soldato croato, a qualsiasi vecchio ponte», l’arroganza con cui l’8 novembre 1993 si vantò d’aver cannoneggiato per sessanta volte quella meraviglia architettonica ottomana che, in 427 anni, aveva sempre lasciato incontrare le due anime della città. Aveva resistito a tutti quei colpi di mortaio, lo Stari Most, e allora il giorno dopo la soldataglia croata dell’Herceg Bosnia, un’autoproclamata repubblichetta di cui l’erzegovese Praljak era il capo militare, decise di farla finita con tre granate: alle 10.15, il simbolo della convivenza fra cattolici e musulmani precipitò coi suoi 456 blocchi di pietra bianca nelle acque verdissime della Neretva. 
Quel 9 novembre fu l’Undici Settembre di Mostar. Rimane un video, entrato nella galleria degli orrori delle guerre balcaniche. Un’idea d’iconoclastia civile che negli anni – vedi i Buddha di Bamiyan polverizzati dai talebani o le trivellazioni dell’Isis a Palmira – avrebbe ispirato altri crimini. «Resterò vivo solo da libero»: quando gli avevano dato vent’anni nel 2013, in primo grado, in quelle parole del generale c’era già la promessa di chi voleva essere sepolto nella natia Capljina, un posto di crociati croati. Perché la cosa che più irritava Praljak era d’essere considerato lui l’ideatore di quello scempio, mentre il vero ideologo Franjo Tudjman – il padre nobile della Croazia indipendente – aveva scampato il processo all’Aia per pulizie etniche poco diverse da quelle del macellaio Milosevic, e alla fine era riuscito a morire nel suo letto, ancora oggi venerato ed effigiato.
Come mai Praljak si giocò un posto nella storia nera del ‘900 con quel bombardamento insensato? Il ponte non era un obbiettivo militare, troppo stretto perché potesse passarci qualcosa di diverso da una persona. Era il capolavoro a schiena d’asino di Solimano il Magnifico, il mecenate delle mura di Gerusalemme. Era il lavoro geniale a un solo arco dell’architetto Hajruddin, il migliore della corte ottomana, così stupito del fatto che lo Stari Most potesse reggere da andarsi a nascondere in un fienile, l’anno 1566 dell’inaugurazione, perché il Sultano aveva promesso di tagliargli la testa se quell’azzardo di gravità fosse crollato. Perché, allora? Quel crollo del ’93 fu un simbolo: servì a dire che l’epoca dell’insieme era finita, Tito addio, la Jugoslavia multietnica abbatteva i ponti e tirava su muri.
Come la Serbia, forse anche peggio, la Croazia oggi europea non ha fatto molti conti con quel passato. Tanto che Praljak, come il Mladic condannato la settimana scorsa, è considerato in patria un eroe. Inutile ricostruire il Ponte, come han fatto italiani e turchi, francesi e olandesi nel 2004, proprio nei mesi in cui il generale veniva finalmente arrestato. Inutile mettere sotto protezione Unesco un fac-simile di monumento sulla Neretva, appiccicato come la pace che divide bosniaci ed erzegovesi. Il ponte senz’anima che s’ammira oggi a Mostar è il miglior bottino di Praljak.
Che in una vita precedente aveva fatto anche l’ingegnere e poi il regista, «Il ritorno di Katarina Kozul» è l’unica opera che si citi, neorealismo croato anni 80 sulle vedove che emigravano in Germania. La cicuta dell’Aia è stata la sua messinscena finale. Più che il viale del tramonto, un red carpet per le tenebre.
Francesco Battistini