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 2017  novembre 30 Giovedì calendario

Il gran teatro della Storia. Gli oggetti raccontano il mondo di Shakespeare

Nel 1603, The Wonderfull Yeare secondo un libretto di Thomas Dekker, la compagnia dei Lord Chamberlain’s Men era in tournée fra Richmond, Bath, Coventry e Shrewsbury. E quando in scena c’era, per esempio, Romeo e Giulietta, e Mercuzio lanciava la sua maledizione – «La peste sulle vostre famiglie...» – il pubblico, beh, non la considerava solo una imprecazione. Il pubblico rabbrividiva: perché la tournée, in realtà, era una fuga da Londra, la capitale flagellata dalla peste. Quell’anno, il Wonderfull Yeare, morì un londinese su cinque. Ma Shakespeare, che era già sfuggito alla peste a Stratford, ormai era un teatrante di una certa fama: e riuscì a sopravvivere, anche economicamente, a quella tragedia. Nel 1603 i teatri infatti vennero chiusi per editto di Re Giacomo I (proprio il 24 marzo era finito il lunghissimo regno di Elisabetta I): proibire gli assembramenti era una delle poche risorse a cui si potesse ricorrere per cercare di arginare il contagio. E il teatro era «il luogo» per eccellenza, dove i londinesi si ritrovavano per una matinée firmata, nientemeno, che dal Bardo. In platea c’era l’intero mondo elisabettiano: «Shakespeare ha qualcosa da dire a ciascuno, perché i suoi spettatori erano tutti: ovvero chiunque, dall’alto in basso e ritorno» dice Margaret Atwood nella sua «riscrittura» della Tempesta (Seme di strega, Rizzoli). E quindi in quel pubblico, che attraversava il Tamigi per raggiungere la riva sud della capitale, c’era il mondo di Shakespeare: così come, sul palco del Globe, c’era il mondo del pubblico.
Ecco perché Neil MacGregor, ex direttore della National Gallery e del British Museum e anche divulgatore culturale per la Bbc (proprio da un programma alla radio è nato il suo bestseller La storia del mondo in 100 oggetti, Adelphi 2012), attraverso la vita degli spettatori dell’epoca può raccontare Il mondo inquieto di Shakespeare (Adelphi, pagg. 316, euro 22): un mondo fatto di quotidiano e di immaginario (come dimostrano le illustrazioni meravigliose del libro, venti capitoli per altrettanti oggetti), berretti di lana e mappe delle nuovissime Americhe, pugnali e armature regali, calici di vino per la Messa riformata e calici di Murano per sognare la sensualità di Venezia, gusci di ostriche e monete d’oro del sovrano del Marocco Ahmad al-Mansur, forchettine intarsiate e dipinti celebrativi della dinastia Tudor. In cima e in fondo, il terreno e l’orizzonte sono loro: Shakespeare, ovviamente, e la Regina Elisabetta. La vergine che scelse di non sposarsi, e rese i suoi sudditi schiavi di una sola paura: la successione al suo Regno, l’incubo della fine della pace e della prosperità. Un argomento così delicato da essere – spiega MacGregor – uno dei due tabù del periodo; l’altro era la peste (appare, in pratica, solo in Romeo e Giulietta).
Per il resto, sul palco succedeva quasi tutto. Tanto che la stessa parola indicava sia il palcoscenico, sia il patibolo, perché anche le esecuzioni erano degli spettacoli, e anche a teatro, spesso, andava in scena la stessa violenza del duello, o della gogna, come nel tremendo accecamento di Gloucester nel Re Lear: perciò un pugnale ritrovato sulla sponda sinistra del Tamigi – un’arma raffinata, da giovane ricco della Londra altolocata, che amava imitare lo stile italiano – racconta quanto le invettive di Mercuzio contro la scherma «all’italiana», molto in voga all’epoca. E un pendolo, un meraviglioso meccanismo firmato dal fiammingo Nicholas Vallin, così innovativo da segnare perfino i minuti racconta quanto Malvolio, che nella Dodicesima notte sogna di essere un ricco gentiluomo con l’orologio. O la medaglia della circumnavigazione di Francis Drake racconta un mondo globale da scoprire, in cui l’Inghilterra cominciava a muoversi da protagonista, e in cui Puck poteva azzardarsi a sognare, in una notte di mezza estate: «In tre quarti d’un’ora, ti stendo a volo un nastro tutt’intorno al globo».
Il mondo inquieto di Shakespeare è un trionfo elisabettiano e di Britishness (c’è anche un capitolo sui primi abbozzi di Union Jack). Ma, anche per chi non fosse un patito del genere, vale ciò che scrisse Ben Jonson del collega William Shakespeare, «spirito del suo tempo» che però «non fu di un’epoca, ma di tutti i tempi». Servono anche teste mozzate, specchi magici e atlanti per dimostrarlo, ancora una volta.