Corriere della Sera, 28 novembre 2017
La Rivoluzione di Chénier. Intervista a Riccardo Chailly
Chailly: «Un debutto tra suggestioni cinematografiche
Musica intensa, meglio non applaudire alla fine delle arie»
Giuseppina Manin
Maestro, cosa ama di più di questo «Andrea Chénier»?
«La dirompente novità musicale che rappresentò allora», assicura Riccardo Chailly, che ha voluto l’opera di Umberto Giordano ambientata ai tempi della Rivoluzione francese per aprire il 7 dicembre la stagione della Scala, regia di Mario Martone, scene di Margherita Palli. «Chenier non è solo il capolavoro del verismo, è uno specchio di tante tensioni che preludono al Novecento musicale. Dentro c’è Wagner, echi del preludio del Tristano. C’è Mahler, nell’impressionante modernità dell’orchestrazione. C’è Puccini, che certo ne fu influenzato per Tosca che comporrà quattro anni dopo...».
E ci sono sei grandi romanze che, alla «prima» del 1896, decretarono il trionfo dell’opera e del suo autore. Eppure lei invita il pubblico a non applaudire a fine arie.
«Perché sono concepite in modo nuovo, senza soluzione di continuità. Applaudire vorrebbe dire spezzare quel ritmo drammaturgico serratissimo imposto dal flusso musicale e dal magnifico libretto di Illica. Profetico dal punto di vista storico, due anni dopo ci saranno i moti di Milano, il massacro di Bava-Beccaris, neowagneriano per il viluppo di amore e morte che ne è il cuore».
Grande trionfo al debutto, poche riprese in tempi moderni.
«Memorabile quella del ‘49 diretta da Victor de Sabata. Alla cui memoria è dedicata questa nostra nuova edizione».
L’ultima volta di «Andrea Chénier» alla Scala risale all’85. A dirigerla sempre lei.
«Una ripresa dell’edizione dell’83, con Carreras nel ruolo del poeta rivoluzionario, Cappuccilli in quello di Gérard, Anna Tomowa-Sintow Maddalena. Dall’85 sono passati 32 anni. Davvero troppi per un’opera come questa. Ma fa parte di quella assurda rimozione del verismo, considerato un momento meno “nobile” della lirica. Mentre è vero il contrario, il verismo guarda avanti, anticipa tanti linguaggi, anche quello del cinema».
In effetti il primo film è del 1895 e il cinema ha amato quest’opera. Non a caso nel film «Philadelphia» Tom Hanks morente ascolta e spiega all’amico Denzel Washington l’aria più struggente di «Andrea Chénier», «La mamma morta» interpretata da Maria Callas.
«L’opera esige grandi voci, grandi interpreti. Il nostro cast, Anna Netrebko, Luca Salsi, Yusif Eyvazov, è una garanzia di musicalità e spessore interpretativo».
Su Eyvazov pensano però alcune incognite.
«La sua è una voce importante. Chénier non richiede toni stentorei ma modulati, su questo abbiamo fatto un grande lavoro insieme. Ascoltarlo con Anna nel duetto del quarto atto dà profonda emozione».
Rispetto a quell’ultima volta ormai lontana, come è cambiata la sua direzione?
«Trent’anni di vita musicale intensa mutano lo sguardo. Le mie esperienze a Amsterdam, Berlino, Lipsia, l’intensa frequentazione con Richard Strauss, Mahler, Zemlinsky, tutto questo crea riflessi, anche inconsapevoli. Ho ripreso la partitura di Giordano come fosse la prima volta, l’ho studiata e riletta in modo totalmente nuovo. Ed è stato così per quasi tutti i professori d’orchestra»..
L’anno prossimo festeggerà 40 anni di Scala.
«La mia prima volta fu nel ‘78 con I Masnadieri. Avevo 25 anni. Abbado mi telefonò a Palermo, dove avrei dovuto aprire la stagione con L’angelo di fuoco di Prokoviev. Gavazzeni era malato, mi chiese di sostituirlo. Difficile dire di no a Claudio, arrivai alla Scala con il cuore in gola ma anche con la certezza di ritrovarmi davanti un’orchestra amica, con cui avevo già lavorato come assistente di Abbado. Da allora, pur seguendo il mio percorso sinfonico europeo, ho sempre trovato il tempo e il modo di tornare al Piermarini, accolto sempre con affetto. Ho diretto molte opere di Verdi e Puccini. Che con Rossini continuano ad essere i cardini del nostro repertorio».
Ha intenzione di aprire le stagioni sempre con titoli italiani?
«È un impegno che mi sono preso. Puntando anche su quelli meno frequentati. La Scala, anche quella del futuro, sarà sempre legata al filo rosso del nostro melodramma. È un patrimonio tale che merita grande attenzione, soprattutto da un teatro come questo. Quanto alle opere europee, avranno sempre grande spazio nel cartellone».
E l’opera contemporanea? Potrà far parte di questa tradizione?
«È d’obbligo. L’unico modo di mantenere viva la tradizione è rinvigorirla con nuovi linguaggi».
Il pubblico è pronto ad accettarli?
«In questi 40 anni l’ho visto maturare. La platea scaligera oggi è molto più consapevole e preparata. E poi i giovani sono naturalmente pronti ad accettare la novità. Il pubblico di domani sono loro».