Corriere della Sera, 28 novembre 2017
L’importanza di un leader
Si intitola «L’ora più buia», ma potrebbe intitolarsi «L’importanza di avere un leader», o di esserlo. La scena chiave è quando Winston Churchill, da pochi giorni primo ministro, prende la metro. È la prima volta in vita sua, ha già tentato di farlo in un giorno di sciopero, ma si è perso.
Nel vagone tutti lo riconoscono, e anziché insultarlo o ignorarlo come magari farebbero oggi – sempre che sia ipotizzabile l’idea di un premier che si muove in metro – si alzano in piedi, gli danno la mano e si presentano. Churchill improvvisa un sondaggio: la Francia sta per capitolare, i nazisti preparano l’invasione dell’Inghilterra: bisogna trattare? «Never! Never!» gridano tutti, muratori, neri, donne, pure una bambina: «Mai!». Cosa bisogna fare, allora? «Fight!», combattere! È lì che Churchill, tentato dall’ipotesi di trattare con Hitler attraverso «il lacchè Mussolini», matura la sua scelta e il suo discorso in Parlamento: «Combatteremo sui mari e sugli oceani, combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria, combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei campi e nelle strade… Non ci arrenderemo mai».
L’episodio della metro non è storicamente attestato, ma è verosimile. Churchill viveva tra il bunker e Westminster, ma talora si concedeva un’incursione tra la gente comune, spesso conclusa dalle lacrime («piagnucolo un po’ troppo…»). Il film di Joe Wright – che sarà presentato al festival di Torino, uscirà prima in America, poi in Inghilterra, infine il 18 gennaio in Italia – è l’ideale seguito di «Dunkirk». Se l’opera di Christopher Nolan mostrava la reazione di un esercito e di un popolo, questa racconta i tormenti e la decisione di un leader. L’unica scena in comune è l’arrivo delle barche da diporto sulla spiaggia di Dunkerque, per riportare in Inghilterra «our boys», i nostri ragazzi, come li chiama Churchill. Per il resto è un film che rischierebbe di risultare claustrofobico, se non fosse per la recitazione di Gary Oldman (può apparire caricaturale solo a chi non ha ascoltato i discorsi di Churchill, pronunciati con la voce impastata dallo scotch) e per la forza straordinaria delle parole e dall’empatia del capo con la nazione.
Churchill non è un populista, anzi, è figlio di un’Inghilterra privilegiata e lo rivendica; ma sa che il cedimento al nazismo avrebbe conseguenze gravi soprattutto per la classe popolare. Non ha «il dono della sobrietà»: beve whisky a colazione, ha «una sregolatezza nel sangue» che gli viene sia da una madre «troppo diffusamente amata» e da un padre che era «come Dio: sempre impegnato altrove». La prima volta che si è fatto fotografare con le dita a V (non per Vendetta ma per Vittoria) l’ha fatto mostrando il dorso anziché il palmo della mano, con un gesto che nei quartieri popolari viene letto come oggi il dito medio. Non arricchisce parrucchieri come farà Hollande, né truccatori come Macron. Non è neppure stato eletto dal popolo; è subentrato al premier Neville Chamberlain perché è l’unico nome che i laburisti sono disposti ad appoggiare per costruire una «grand coalition». Soprattutto, Churchill è solo. Può contare su una moglie devota (Kristin Scott Thomas) e su figli affezionati ma assenti. Il suo partito gli è ostile. Il suo alleato Roosevelt rifiuta di consegnargli gli aerei che il governo britannico ha pagato, «al massimo potete farli trainare in territorio canadese dai cavalli, ma niente di motorizzato» («cavalli?!» si dispera Churchill). Il suo primo grande discorso ai Comuni – «non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime, sudore» – viene accolto dal gelo dei deputati. Il suo ministro degli Esteri, visconte Halifax, trama contro di lui e attraverso l’ambasciatore italiano avvia trattative di pace, cioè di resa. Il re, amico personale di Halifax, non lo ama. Gli offre la mano da baciare e se la strofina dietro la schiena. Gli propone di vedersi ogni lunedì alle 4 del pomeriggio e si sente rispondere: «A quell’ora dormo. Lavoro di notte». A pranzo gli chiede: «Come fa lei a bere sempre, anche di giorno?» («practice», allenamento, è la risposta). Eppure sarà proprio Giorgio VI, con la sua balbuzie resa ormai celebre sempre dal cinema («Il discorso del re»), a consigliargli di ascoltare il popolo, e a confortare il suo primo ministro nella scelta di non arrendersi, di combattere. E davvero viene da pensare come sarebbe cambiata la storia del mondo se il fratello Edoardo, filotedesco, non avesse abdicato per amore.
Un ultimo interrogativo sorge naturale: e gli italiani? Come si comporterebbero, come si sarebbero comportati? Gli ammiratori del Duce faranno notare che Churchill aveva avuto parole di apprezzamento per lui, o comunque lo considerò un male minore per un Paese poco avvezzo alla democrazia. Non è vero però che gli italiani avrebbero sempre e comunque auspicato la resa e la pace. Non lo fecero cent’anni fa, in questi stessi giorni, dopo Caporetto. Non lo fecero dopo Villafranca (1859), quando i torinesi accolsero Napoleone III di passaggio in città con i ritratti di Felice Orsini che aveva tentato di ucciderlo: un modo per dire che volevano continuare a combattere, anche dopo la carneficina di San Martino, per fare l’Italia. E gli italiani non lo fecero neppure nella Londra semidistrutta dai bombardamenti. Dopo la guerra, Churchill stesso confidò a Indro Montanelli – ospite come lui di Lord Beaverbrook in Costa Azzurra – che il barbiere che aveva appeso tra le macerie il cartello «Business as usual», si lavora come sempre, si chiamava Pasquale Esposito ed era immigrato dall’Irpinia.