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 2017  novembre 28 Martedì calendario

Il viaggio di Gentiloni nel continente. L’importanza della «filiera africana»

A essere un po’ maliziosi ma anche realisti si potrebbe affermare che il viaggio del primo ministro Paolo Gentiloni in Africa è segnato da una diplomazia “a tutto gas”, in gran parte con il marchio Eni. Non c’è niente di esotico in questa missione.
In Tunisia, partner essenziale sulla sponda Sud dei migranti, la presenza dell’Eni risale agli anni Sessanta quando venne scoperto il giacimento di El Borma, uno dei principali del Sahara.
Ma la Tunisia è anche un anello del cordone ombelicale che lega l’Italia al Nordafrica, qui passa infatti il gasdotto Transmed che trasporta il gas dell’Algeria, secondo fornitore italiano dopo la Russia. In Angola, in seguito all’incontro tra Gentiloni e il presidente Joao Lourenco, sono stati annunciati accordi che porteranno l’Eni ad avere quasi il 50% dei diritti su Cabinda North, una sorta di Eldorado energetico angolano.
Anche le altre tappe del viaggio africano sono all’insegna di gas e petrolio. Eni in Costa d’Avorio ha acquisito il 30% del blocco esplorativo offshore CI-100. Persino il Ghana sotto questo profilo è assai significativo. In anticipo sui tempi previsti, l’Eni qui ha messo in produzione l’Offshore Cape Three Points Block (Octp). In questi progetti, considerati prioritari dalla stessa Banca Mondiale, ci sono giacimenti per 41 miliardi di metri cubi di gas e 500 milioni di barili di petrolio.
Ecco perché Gentiloni è diventato “l’Africano”. Ha quindi snocciolato cifre da record per gli investimenti italiani sul continente: 12 miliardi nel 2016, al primo posto in Europa, al terzo nel mondo. Ovviamente la parte del leone è dell’Eni, presente con i suoi vertici a ogni tappa del viaggio.
Del resto l’Eni è un attore geopolitico per eccellenza, l’unico che abbiamo di questa portata. «È il motore degli interessi strategici dell’Italia nel mondo», ha detto qualche mese fa Gentiloni, primo capo di un governo italiano a entrare nel quartiere generale di San Donato.
L’Eni è un protagonista per storia e vocazione del suo fondatore, il comandante partigiano Enrico Mattei: sua la battaglia per non liquidare l’Agip nelle mani degli americani, quella condotta contro le Sette Sorelle per entrare sul mercato iraniano sbarrato dalle multinazionali, sua l’avventura mediterranea, con la decisa apertura ai Paesi africani e del Medio Oriente con i quali solidarizzava per il passato coloniale, al punto da finanziare la guerriglia algerina anti-francese. Senza dimenticare i rapporti con Mosca, quando Mattei, in piena guerra fredda, importava il petrolio russo a prezzi da saldo.
Forse non è un caso che nel 2011, all’inizio delle guerra contro Gheddafi, i terminali dell’Eni fossero inseriti dai nostri alleati Nato tra gli obiettivi da bombardare. Pensare male è peccato ma spesso ci si azzecca, diceva Andreotti. Ma a sei anni dalla fine del dittatore libico, il maggiore alleato dell’Italia nel Mediterraneo, la cui sconfitta con le sue conseguenze è stata la più devastante débâcle italiana dal dopoguerra, l’Eni rimane l’unica multinazionale attiva sia a Ovest che a Est di una Libia spaccata tra Tripolitania e Cirenaica.
Ecco perché c’è una “filiera africana” essenziale ai nostri rifornimenti ma anche per lo sviluppo dei Paesi africani. Molte volte si banalizza il motto «aiutiamoli a casa loro» quando si tratta di immigrazione, ma se guardiamo alle cifre le speranze africane sono ancora affidate alle risorse energetiche e alle materie prime, viste però con un’ottica diversa da un presente dove portano ricchezza (e corruzione) solo a una cerchia ristretta delle élite africane e alle multinazionali.
La fiche che l’Unione europea vorrebbe moltiplicare al tavolo verde degli investimenti si gioca sulle opportunità di attirare capitali privati prima di tutto nelle vene profonde dell’Africa da dove escono gas, petrolio, minerali. La relazione tra l’enorme potenziale in risorse naturali, la crescita del Pil e lo sviluppo sociale non è lineare: anzi in Africa a volte più la nazione è ricca e più i cittadini sono poveri.
Le materie prime rappresentano il 70% delle esportazioni totali dell’Africa. Ma è solo cambiando registro rispetto al passato che possono diventare il volano dello sviluppo, altrimenti gli africani cercheranno sempre una via di fuga da guerre, despoti e cleptocrazie che costringono la gente a vivere con meno di un dollaro al giorno.