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 2017  novembre 27 Lunedì calendario

Il grande gioco per l’Africa. Roma rincorre Parigi e Berlino

ROMA Siamo capaci di exploit incredibili, terzi dietro Cina ed Emirati, prima degli Stati Uniti, per il gli investimenti di capitale dell’ultimo biennio, quasi 12 miliardi di dollari. Ma siamo anche impeccabilmente disorganizzati: «Francia e Germania hanno 140 persone nella cooperazione europea, che lavorano a Bruxelles, nello stesso Palazzo. Noi appena due!», è l’amarezza che si raccoglie alla Farnesina.
Ieri Paolo Gentiloni ha fatto tappa in Tunisia, ha visto il governo dello Stato che è «un esempio di democrazia regionale», ma poi si è allontanato, e di molto, dalle coste del Mediterraneo: oggi sarà in Angola, e poi in Ghana e Costa d’Avorio. 
Ha iniziato Matteo Renzi, con due viaggi. Ha proseguito il capo dello Stato, l’anno scorso. Ormai si può parlare di un filo rosso: dopo decenni di distrazione, l’Italia riscopre l’Africa, anche subsahariana. E riesce anche a fare sistema, fra le sue istituzioni: dal Niger al Camerun, dall’Etiopia al Mali, si alternano ruoli e scelte geografiche, tutti comunque impegnati nel recuperare un gap rispetto ai player globali. 
Gentiloni ci vede già «protagonisti di un nuovo legame con l’Africa». L’anno prossimo toccherà di nuovo a Sergio Mattarella. Si è presa consapevolezza, per ragioni geopolitiche, commerciali, culturali e di sicurezza, che il Continente più grande del mondo è stato trascurato. Altri non sono stati a guardare. Per la Turchia è quasi un boom, «con le costruzioni e grazie alla sua mastodontica compagnia aerea di bandiera, nell’Africa orientale», registrano a Palazzo Chigi. 
I Paesi del Golfo e l’Arabia Saudita investono ed esportano, «con un occhio al portafoglio e l’altro alle scuole islamiche e alle madrasse», è la preoccupazione che il nostro governo condivide con l’Ue. La Cina sciorina primati commerciali, anche se non fa consenso. Francia e Germania hanno consolidato un ruolo storico, con una rete diplomatica e commerciale che alla Farnesina invidiano.
Il gap da recuperare non è sottile. E il terzo posto lusinghiero negli investimenti è anche un dato condizionato dai successi dell’Eni in Egitto. Ma lo sforzo italiano è ad ampio spettro: i viaggi di Renzi hanno avuto un ritorno elettorale, con il voto determinante dei Paesi africani sediamo in Consiglio di sicurezza. Le nostre Ong sono centinaia e fra le più apprezzate. La Sace, che assicura gli investimenti delle nostre imprese, ha appena triplicato, a 3 miliardi di euro, la propria esposizione. La Farnesina ha inaugurato meeting biennali di sistema fra Italia e Africa: sono arrivati a Roma 40 su 54 Paesi africani.
C’è stato un grande vuoto, l’era di Berlusconi, che non si spingeva oltre Egitto e Libia. Quella dei governi di emergenza, Monti e Letta, ripiegati su questioni interne. Ora, nell’inversione di tendenza, con la regia della Farnesina, si tratta non solo di rafforzare la diplomazia commerciale. Preoccupano l’islamizzazione crescente di una parte dell’Africa, quella del Corno. Il calo delle scuole cattoliche. L’urgenza di investimenti capaci di invertire i trend di una vera diaspora, in un Continente che al momento fa due volte e mezzo i figli dell’Asia. 
Del resto non si è svegliata solo l’Italia: anche Bruxelles cerca di rafforzare la cooperazione, mentre Germania e Berlino hanno appena lanciato un’iniziativa politica sul Sahel, primo scopo il contenimento dell’emigrazione, che ha spiazzato tutti, facendo da apripista. Nel nostro sforzo talvolta facciamo ticket con Israele, Giappone e India (lo ha chiesto espressamente Modi a Gentiloni poche settimane fa), costruendo progetti di investimento comuni, triangolazioni commerciali in cui di solito eccelliamo. Ma i numeri crudi delle nostre ambasciate in Africa segnalano una fatica: in media i francesi sono 10, i tedeschi 5, noi in molti Stati abbiamo uno, due o tre diplomatici.
Oggi la Farnesina gestisce 100 milioni di fondi per la cooperazione, il doppio di qualche anno fa. Ma a Bruxelles – alla caccia di fondi comunitari – tedeschi e francesi non hanno pari: una buona fetta di risorse per l’Africa, come il Trust fund, finiscono a loro. Paghiamo anche anni di spending review, mentre alla Farnesina c’è il blocco delle assunzioni. E la nuova Agenzia per la cooperazione (Aics) non ha ancora l’accredito per gestire fondi Ue. Eppure la nostra cooperazione è appena passata dallo 0,16 allo 0,22% del Pil. Non è poco, ma in tanti casi è ancora come Davide contro Golia.