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 2017  novembre 27 Lunedì calendario

«Io, contadino della bici». Moscon, il nuovo talento italiano

«Sono un po’ un agricoltore prestato al ciclismo. Io mi sento così». Gianni Moscon ci aspetta nella piazza principale di Cles. La casa di Livo e il meleto di famiglia non sono troppo distanti. Tempo a disposizione ce n’è: una buona opportunità per parlare a 360° con il talento emergente più fulgido del ciclismo italiano. A 23 anni, la sua seconda stagione tra i pro’ è stata pienissima. Un successo: il tricolore a crono. Tanti momenti esaltanti: 5° alla Roubaix, una grande Vuelta in appoggio a Froome, 6° al Mondiale a crono, 3° al Lombardia. E più di un rovescio della medaglia: lo stop di 6 settimane per insulti razzisti a Reza, l’esclusione dall’ordine d’arrivo del Mondiale per traino (di cui si era assunto la responsabilità il c.t. Cassani), le accuse di Reichenbach («Mi ha fatto cadere apposta») alla Tre Valli Varesine.
Moscon, cominciamo… dall’agricoltura. Lei ci vede delle similitudini con il ciclismo?
«Fin da piccolo sono andato nei campi con mio padre. I nonni vivevano di quello, venivano dalla povertà delle guerre, mi hanno trasmesso dei valori. La vita era così dalle mie parti. E, in agricoltura, ci sono dei principi più che validi per la bici».
Quali?
«Se tu curi bene una pianta e ti dedichi a lei, dà frutti buoni, grossi, omogenei. E più ti dedichi e sei meticoloso… Nel ciclismo è uguale, con l’allenamento e i particolari. Potresti andare alle gare senza fare niente e ti ritiri tutte le volte. Mentre se ci metti dedizione, impegno, passione… Io ho questo spirito retrò, antico. Mi piacciono le cose antiche».
Per questo la corsa che le piace di più è la Roubaix?
«Sì. Anzitutto il quinto posto di quest’anno è stata la prima conferma che non erano solo chiacchiere, che potevo essere competitivo davvero ad alto livello. Poi è l’unica corsa che non assomiglia sul serio a nient’altro. Nel ciclismo, prima magari si correva su strade sterrate che ora sono asfaltate. Il pavé della Roubaix è sempre lo stesso e poi ci fai solo quella corsa. Non amo nient’altro allo stesso modo».
Per quella del 2018 ha già un piano?
«Eh, spererei di arrivare da solo, perché in volata sono messo male… Io nei confronti degli specialisti del pavé pago in termini di peso. Sono più lento. Posso avere un paio di chili in più, 72 chili rispetto ai 70 della Vuelta, ma si tratta di grasso non di muscoli! Dovrei cercare di anticipare e arrivare con più “gambe” nel momento decisivo. Ma chi lo sa, non lo so nemmeno io in realtà». 
Al termine di una stagione così, qual è il sentimento predominante?
«La stanchezza! E una domanda, anche: riuscirò a confermarmi su questi livelli? È come se non mi fossi abituato allo standard che ho raggiunto. A freddo mi vengono dei dubbi, delle sensazioni strane. Mi capitò già tra il secondo e il terzo anno da dilettante, poi andò tutto per il meglio. In gara è diverso, ragiono come ho sempre ragionato: da vincente. Mi chiedo se campioni come Froome o Nibali vengono assaliti dagli stessi dubbi. Io mi metto di continuo in discussione, e ci metto ancora più impegno per riconfermarmi».
Rispetto agli episodi negativi del 2017, che riflessioni ha fatto? Pensa di dover cambiare il suo atteggiamento in gruppo?
«Sono cose che fanno crescere. Io la competizione la vivo molto. Sento quell’adrenalina. Magari anche per questo faccio risultati, se fossi più arrendevole mollerei prima. Ci metto passione. Mi faccio prendere, come se entrassi in trance agonistica. In bici mi trasformo ma non sono cattivo. Imparerò a gestire meglio certe dinamiche. Fermo restando che con Reza ho detto una cosa che non avrei dovuto dire, l’ho ammesso, mi ero chiarito subito con lui».
Mentre con Reichenbach?
«Tanti che hanno visto sono venuti da me a dirmi “Ma che cosa vuole?”. I testimoni ce li ho anche io, non è successo niente di irregolare né c’è stato alcun dolo. Mi dispiace si sia partiti in quinta con le accuse. Vedrò come comportarmi (per ora non risultato denunce formali da parte dello svizzero, ndr) perché la mia immagine è stata danneggiata».
Convinto che dipenda anche dal fatto che la sua squadra, il Team Sky, sia antipatica a molti?
«Non accetto che si dica che siamo arroganti, ognuno fa il proprio lavoro. C’è invidia. Ma, come dice il detto, meglio fare invidia che pena. Stiamo facendo scuola e questo può non piacere. Prendiamo l’esempio dei rulli nel dopo-gara. Quando abbiamo cominciato ci deridevano, ora quelli che ridevano sono i primi che si fanno portare la bici sotto al podio».
Lei è sotto contratto fino al 2019: conferma che si sta già parlando di un rinnovo?
«Sì, io mio trovo benissimo, è l’ambiente in cui sento di poter crescere al meglio».
Nel 2017 è andato forte su ogni terreno dunque il dilemma se è più da classiche o da grandi giri si è riproposto.
«Vincere un grande giro, per chi fa il mio mestiere, è la massima ambizione. Le classiche per adesso sono più alla mia portata. Alla Vuelta sono andato bene, ma lavoravo per Froome e una volta finito il lavoro mi potevo staccare ed erano cavoli suoi. Ma se per ipotesi avessi fatto il capitano… non sarei arrivato neppure nei primi dieci».
Il 2018 a grandi linee lo ha già tracciato?
«Nelle Classiche del Nord avrò un ruolo di primo piano. Mi piacerebbe molto venire al Giro d’Italia. Dalle indiscrezioni ho letto che ci sarà una crono in Trentino che potrei affrontare con le maglia di campione italiano. Ma l’orientamento della squadra è quello di farmi debuttare al Tour. Come me lo immagino? Qualcosa di molto grande».