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 2017  novembre 23 Giovedì calendario

Mameli, la sciarada dell’Inno e quel che dice di noi

Finalmente le Camere hanno stabilito con legge che l’Inno di Mameli è l’inno nazionale della Repubblica. Si sarebbe tentati di dire che tutto è bene quel che finisce bene. In effetti così si è detto da molte parti in questi giorni. Ma non è vero. Perché forse per carità di patria si è sorvolato sul fatto che per arrivare al traguardo ce n’è voluta. E non tutto, per usare un eufemismo, è andato per il verso giusto. Per cominciare, l’Assemblea costituente ha le sue responsabilità. Ha omesso che l’italiano è la lingua ufficiale, come invece aveva previsto lo Statuto albertino all’articolo 62. Non ha fatto parola dell’inno nazionale. Che in Francia è la Marsigliese, come stabiliscono all’articolo 2 le Costituzioni del 1946 e del 1958. Dei caratteri distintivi dell’unità nazionale l’Assemblea ha salvato soltanto il Tricolore. E non avrebbe potuto fare diversamente, visto e considerato che Carlo Alberto lo aveva fatto proprio in barba all’articolo 77 dello Statuto, in base al quale la coccarda azzurra era la sola bandiera nazionale. La verità è che l’Italia era in pezzi e prevalse l’adagio del primum vivere, deinde philosophari.
A questo punto c’era il rischio che nelle visite istituzionali all’estero si suonasse la Marcia reale. Come pare sia accaduto una volta. Così nella seduta del 12 ottobre 1946 il Consiglio dei ministri, sotto la presidenza di Alcide De Gasperi, decise di non decidere. Su proposta del ministro della Guerra Cipriano Facchinetti, un repubblicano fiero delle glorie risorgimentali, adottò sì l’Inno di Mameli come inno nazionale. Ma in via provvisoria. Come se fosse un nonnulla, il Consiglio dei ministri non era neppure al gran completo. Mancava, tanto per non fare nomi, Pietro Nenni. Che nel suo Diario annota: «In mia assenza l’Inno di Mameli è stato scelto come Inno provvisorio della Repubblica». E aggiunge: «Tutto provvisorio dal 2 giugno in poi…». Per una pratica di poco conto come questa, non valeva la pena di essere presente.
Ora è pur vero, come sosteneva con apparente paradosso Ennio Flaiano, che da noi non c’è nulla di più definitivo del provvisorio. Fatto sta che si è esagerato. Per la bellezza di settantun anni il Parlamento ha sonnecchiato colpevolmente. I tentativi di giungere all’agognato traguardo sono tutti abortiti. Nella XIV legislatura sono stati presentati al Senato due progetti di legge, l’uno costituzionale e l’altro ordinario. Ma tutto è stato inutile. Con sprezzo del ridicolo la commissione Affari costituzionali non ritenne opportuna un’integrazione della Costituzione. Nella legislatura successiva, sempre al Senato, tre progetti di legge ordinari e uno costituzionale non ebbero miglior fortuna. Nella XVI legislatura si registrò l’ennesimo fiasco. Tuttavia è stata approvata la legge 23 novembre 2012 n. 222. Presentata dalla deputata di An Paola Frassinetti – genovese al pari di Goffredo Mameli e Michele Novaro, compositore dell’Inno – reca norme sull’insegnamento dell’Inno nelle scuole. Inoltre stabilisce che il 17 marzo, data della proclamazione a Torino nel 1861 dell’Unità d’Italia, sia la “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della bandiera”. Disposizioni destinate a milioni di apolidi, per l’appunto gli italiani secondo Montanelli. E sovente rimaste, nemmeno a dirlo, sulla carta.
In questa legislatura alla Camera il fratello d’Italia Gaetano Nastri, lasciato solo soletto dai suoi compagni di partito a dispetto del nome in ditta, presenta il 12 novembre 2013 una proposta di legge al riguardo. E lo stesso fa il piddino Umberto D’Ottavio assieme ad altri il 29 giugno 2016. Ma le cose si sono trascinate per le lunghe e stancamente. La commissione Affari costituzionali di Montecitorio ha approvato in sede legislativa il provvedimento dopo un esame svogliato da parte di pochi deputati. E la commissione omologa di Palazzo Madama ha fatto altrettanto dopo l’intervento del solo relatore, l’azzurro Roberto Cassinelli, un avvocato genovese appassionato di storia patria. Non a caso Genova si gloria del titolo di città dell’Inno.
In commissione in sede deliberante passano di solito i provvedimenti di secondaria importanza o settoriali. E l’impressione è che si sia adottato questo procedimento abbreviato un po’ perché c’era il rischio di fare un altro buco nell’acqua, ma soprattutto perché non si è compresa l’importanza simbolica di una legge del genere. Tuttavia non prendiamocela più di tanto nei confronti della nostra beneamata classe politica. Nel bene e nel male è lo specchio fedele di quella società che – chissà perché – ci ostiniamo a chiamare civile. Il guaio è che da noi gli 8 settembre sono come gli esami per Eduardo De Filippo. Non finiscono mai.