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 2017  novembre 13 Lunedì calendario

«La Champions con la Juventus. Non andrò mai in un altro club». Intervista a Giuseppe Marotta

Il quadrilatero della Signora. È qui che Giuseppe Marotta, amministratore delegato della Juventus, incontra il Giornale. E se ti affacci dalla finestra del suo studio tocchi con mano tutto il mondo bianconero. A destra si pensano e si costruiscono le vittorie nell’avveniristico centro sportivo della Continassa, a sinistra si conquistano i trofei nel fortino dell’Allianz Stadium. 
A ispirare tutto i centoventi anni di storia della Signora custoditi nello Juventus Museum. Novantaquattro, per la precisione, con la famiglia Agnelli al comando.
Marotta, questo fa la differenza rispetto alle altre proprietà americane o cinesi?
«Avere una famiglia così longeva alla guida del club significa senso di appartenenza. Un Agnelli alla presidenza è un valore aggiunto».
Un bilancio da record: ricavi a 562,7 milioni di euro e utile di 42,6.
«Andrea Agnelli ha creato un modello vincente. Il core business è fare calcio. Ma devi avere alle spalle una squadra invisibile che ti supporti in tutto. Lui è stato lungimirante, con due principi: la competenza e la delega. E tutto alla Juve è volto alla vittoria».
Con questa filosofia avete la forza per poter fare ogni anno un colpo da 100 milioni?
«Per Higuain si è creata un’opportunità d’uscita dal Napoli in un momento storico in cui noi abbiamo ritenuto di fare quell’investimento. Ma non si può pensare di farlo tutti gli anni».
Anche perché non c’è sempre da vendere Pogba...
«Quel trasferimento l’abbiamo chiuso prima della definizione del passaggio di Paul allo United, che era comunque prevedibile e ovviamente ha facilitato l’affare del Pipita».
Mentre l’estate scorsa è stata quella degli addii di Bonucci e Dani Alves. Quale vi ha obbligato a rivedere i piani?
«Quello del brasiliano. Fulmine a ciel sereno. Lui ha fatto una scelta che sembrava essere il City, poi è arrivato il Psg. C’è stato un momento di contrasto, perché ho fatto valere il rispetto del professionista nei confronti della Juventus».
E Bonucci? Rinnovando Allegri sapevate che Leo avrebbe potuto chiedere la cessione?
«Premetto che l’allenatore non è la causa. Eravamo preparati perché nelle discussioni che normalmente si fanno erano emerse delle insoddisfazioni del giocatore».
Perché la Juve ogni anno si ritrova a costruire e smontare il giocattolo?
«È una sfida. Ovviamente da una parte c’è sempre attenzione alle esigenze finanziarie, ma dall’altra si vuole ottenere il massimo dei risultati sportivi. È mancata solo la ciliegina, ma gli scudetti e due finali Champions in tre anni promuovono i mercati fatti».
Matuidi è stato strapagato?
«Non sono d’accordo. Venti milioni più bonus per un giocatore integro fisicamente che aggiunge personalità sono sostenibili. Se si pensa che abbiamo venduto Bonucci a quaranta».
La prossima estate priorità alla difesa?
«C’è Caldara, ma la carta d’identità dice che qualcosa va fatto. E lo faremo».
Lo zoccolo è duro da rifare, sarà sempre made in Italy?
«Sono convinto che se vuoi vincere in Italia lo zoccolo duro deve essere sempre costituito da italiani. Quando vanno sui campi di provincia, gli stranieri fanno fatica a capire che contro la Juventus ogni squadra esprime sempre il massimo».
È la sua Juve più forte?
«Si dice sempre che l’ultima è la più forte. Io dico che questa è la squadra più equilibrata. Posso aggiungere una cosa?».
Prego.
«Io parlo sempre al plurale perché condivido il merito con i collaboratori. Ho l’orgoglio di dire che Paratici, il direttore sportivo, è una mia creatura».
Qual è il potenziale espresso finora dalla squadra?
«Siamo al settanta per cento».
Ma il Napoli gioca meglio.
«Ogni squadra ha un suo dna. La Juve è quel calzettone strappato che Boniperti aveva in ufficio».
E in Champions?
«Dipende da molti fattori. A Istanbul siamo stati eliminati perché ha nevicato. Ma negli ultimi anni ha vinto sempre quella che ritenevo la squadra più forte».
Buffon dice che continua solo se vince la Champions, Marotta che cosa dice?
«Il mio percorso non è finito. C’è questa sfida di volere a tutti i costi arrivare alla Champions. Poi non mi vedrei in un’altra società; quando Agnelli lo vorrà, mi vedo in ambito federale».
Allegri ha tentennato dopo Cardiff. Quale è la sua qualità principale?
«La società viene prima di tutto. Nella classe dirigente considero anche l’allenatore, che deve essere coerente con la linea aziendale: allenatori che non lo sono, alla Juve non troverebbero spazio. Allegri si concilia alla perfezione con il nostro modello».
Il Var può essere la motivazione per il settimo scudetto, per zittire chi dice da sempre che la Juve è favorita?
«Noi comunque abbiamo l’obbligo di vincere. Siamo costruiti per lo scudetto, non conquistarlo sarebbe una sconfitta. Non temiamo il Var, anzi può legittimare le nostre vittorie. Ad esempio noi abbiamo già tirato gli stessi rigori – tre – della scorsa stagione. Poi li abbiamo sbagliati...».
Che cosa succede a Dybala?
«Non ha avuto il tempo di essere talento: è diventato subito campione. E se fa cose normali viene bocciato. Come società dobbiamo essere bravi a supportarlo».
Da un caso all’altro. Che cosa pensa della questione delle figurine di Anna Frank?
«Il calcio è una cassa di risonanza incredibile. Quello che è successo è grave, ma la responsabilità della mancanza di cultura va ricercata nelle istituzioni».
Lei, con una curva chiusa, avrebbe aperto l’altra?
«C’è un vuoto normativo incredibile. Ma quando si prendono provvedimenti non si prendono contro il cemento. Poi ognuno si comporta secondo coscienza. Noi probabilmente avremmo preso una posizione diversa, quando è successo abbiamo riempito con i bambini la curva».
A proposito di tifosi, mercoledì c’è la Corte d’Appello federale per i biglietti agli ultras.
«Alla fine dell’indagine della magistratura ordinaria e dopo la sentenza di primo grado della giustizia sportiova, è emerso che nessun dirigente della Juve era colluso con la ’ndrangheta. Era una spada di Damocle che siamo riusciti a sconfiggere. Ma manca una legge sul bagarinaggio».
Dal doping a calciopoli ai biglietti, la Juve sempre al centro. Che idea si è fatto?
«I forti generano sempre invidia. Si è galoppato sulla cultura dell’invidia così come non c’è la cultura della sconfitta».
A proposito di leggi. È in arrivo la Legge Lotti sui diritti tv, per la Juventus si stima un taglio da 40 milioni...
«Noi auspichiamo che ci sia la lungimiranza di capire che il sistema calcio non è radicato solo in Italia, ma ha riflessi europei. Noi abbiamo recitato la parte degli investitori. Lo sviluppo passa attraverso società che svolgono attività di sistema e non da quelle che si agganciano. La legge Melandri non deve essere una legge di assistenzialismo. La distribuzione delle risorse deve tenere conto di investimenti, strutture, competitività e meritocrazia. Questi sono i quattro capisaldi».
Come spiega la virata di rapporti con il presidente della Figc Tavecchio?
«Ha preso coscienza che il calcio va riformato. L’abbiamo convinto, ma si è anche convinto da solo. Di questo gli va dato atto».
E le riforme si fanno?
«Il sistema non può reggere 102 società professionistiche. Sono scomparsi i mecenati, serve sostenibilità. Siamo convinti di ridurre la serie A a 18 squadre. E le seconde squadre sono fondamentali. Io vedo una serie A e una sorta di A2 con tre gironi».
Anche per rilanciare i vivai dove avete qualche difficoltà.
«È vero, ma è difficile fare il salto dalla Primavera alla prima squadra. Tra le grandi il Milan è un’eccezione, forse per il momento storico».
A proposito di Milano, cosa pensa di Inter e Milan versione cinese?
«La competitività sportiva è sempre al massimo livello. Poi il calcio è un prodotto congiunto e con loro abbiamo instaurato un ottimo rapporto per valorizzarlo».
Pirlo ha detto addio, Buffon potrebbe seguirlo. La Juve pensa a un ruolo per loro?
«Per me uno è campione quando saluta una società e lascia qualcosa in positivo, da cui imparare. Loro lo hanno fatto. Poi spetta al presidente decidere».
Ma non c’è il rischio di una Juve ingrata con gli ex?
«No, questo no. Il calcio è fenomeno sportivo ma anche di business, servono competenze importanti. Siamo passati da associazioni sportive, date in gestione per riconoscenza anche ad ex giocatori, ad aziende. Poi ritengo che ogni società debba avere ex campioni che riescano a trasmettere un messaggio vincente. Noi abbiamo Pavel Nedved vicepresidente».
I tre colpi di Marotta?
«Casiraghi venduto alla Juventus di Boniperti: il segno del destino. Cassano portato alla Sampdoria dal Real Madrid: emozione pura perché si trattava di recuperare un talento. L’affare Pogba al Manchester United: la realizzazione professionale».
Chi è Marotta?
«Sono un appassionato di calcio. Con le mie debolezze, so di aver fatto degli errori».
E la storia del bambino magazziniere?
«Ma va... Da casa vedevo lo stadio del Varese e per guardare gli allenamenti davo una mano. Io lì ho imparato l’arte: a scegliere i tacchetti, le atmosfere dei palloni, il taglio dell’erba, a tenere i rapporti con gli arbitri».
Ed è arrivato fino alla Juve?
«Sono stato bravo a capire che cambiava il ruolo del direttore sportivo. E poi nel mio settore non c’è competitività. Se qualcuno mi dicesse: Ho preso una squadra, mi consigli un manager, farei fatica a fare quattro nomi».
Meglio gli anni Ottanta?
«Certo, quel calcio pieno di romanticismo. Quello raccontato da Umberto Saba in Goal: Il portiere è caduto.... Allora i calciatori andavano in trattoria alla sera, ora sono delle aziende. E tra poco servirà anche lo psicologo in squadra».