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 2017  ottobre 23 Lunedì calendario

Il referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto

Il referendum è andato benissimo per Zaia e così così per Maroni. In Veneto ha votato il 57,2% degli elettori e i sì all’autonomia sono stati il 98%, quasi un plebiscito. In Lombardia la partecipazione al voto s’è fermata al 38-39%, e i sì anche qui sono stati il 95%.

Il referendum in Lombardia non è valido?
In Veneto era previsto un quorum, cioè se non si fosse recata alle urne almeno la metà più uno degli elettori la consultazione non avrebbe avuto valore. In Lombardia il quorum non c’era, e Maroni aveva fissato la soglia del successo - tutto politico - al 34%, la percentuale raggiunta nel 2001 quando si trattò di votare sulla riforma del Titolo V della Costituzione. Quelli del Pd - alcuni dei quali favorevoli al sì (Beppe Sala sindaco di Milano, Giorgio Gori sindaco di Bergamo) - sostengono che, non essendo arrivato neanche al 40%, il referendum di Maroni deve considerarsi un flop. Ma chissà. Il posto dove s’è votato di meno è Milano.  

Era lo stesso referendum per tutt’e due o si trattava di due referendum diversi?
Ricorderà che l’argomento era l’autonomia da Roma, cioè i due governatori vogliono più liberta di movimento per la Lombardia e il Veneto. I due quesiti però erano diversi, cioè si tratta di due referendum distinti. Quello della Lombardia chiedeva: «Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?». Quello del Veneto era più breve: «Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?». Naturalmente il sì ha vinto largamente in tutt’e due le regioni, e anzi la conta dei partecipanti era importante proprio per questo, che chiaramente chi è andato a votare ha votato quasi sempre sì. Dunque, per valutare l’eventuale opposizione alle richieste di autonomia bisogna studiare quelli che si sono astenuti. Ma ci sono un altro paio di cose interessanti.  

Sentiamo.
Il referendum del Veneto doveva comporsi di sei domande. Ma lo Stato le ha impugnate e la Corte costituzionale ha accolto il ricorso cancellandone cinque. Uno di questi cinque era così formulato: «Vuoi che il Veneto diventi una repubblica indipendente e sovrana?». I due governatori, alla vigilia, hanno negato qualunque somiglianza con le spinte secessioniste catalane e non a caso in quello di Maroni si specifica che l’autonomia è chiesta «nel quadro dell’unità nazionale». Tuttavia nello statuto della Lega Nord, all’articolo 1, sta scritto: «Il movimento politico, denominato Lega Nord per l’indipendenza della Padania, ha per finalità il conseguimento dell’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica federale indipendente e sovrana». Piuttosto catalani, no? E come mai non hanno concesso quello che adesso chiedono quando erano al governo? Maroni e Zaia non lo dicono, ma la consultazione - del tutto inutile sul piano sostanziale - ha in realtà un bersaglio preciso.  

Chi?
Il segretario Salvini, il quale si propone, come sappiamo, di trasformare la Lega Nord in un partito nazionale, capace di prendere voti anche al Sud. Modello Le Pen. Maroni e Zaia non sono troppo convinti di questa trasformazione e i bossiani duri e puri sono contrari. Salvini, in campagna elettorale, s’è infatti visto poco. L’altro obiettivo è quello delle regionali del prossimo anno. Maroni dovrà vedersela, a sinistra, con Giorgio Gori, attuale sindaco di Bergamo ed ex grande manager di Mediaset. Non sarà facile e il referendum è servito a scaldare gli animi dei suoi.  

Perché i due referendum sono del tutto inutili sul piano sostanziale?
Sono costati, tra tutti e due, settanta milioni e hanno solo valore consultivo. Nulla cambia, dopo la vittoria del sì, per le due regioni che dovranno in ogni caso aprire una trattativa con lo Stato per ottenere quello che possono ottenere in base a quanto specificato agli articoli 116 e 117 della Costituzione. È stata molto sbandierata la faccenda del «pagheremo meno tasse» e «tratteniamo qui la metà di quello che oggi diamo allo Stato» (secondo Maroni, smentito dalla voce.info, 52 o 57 miliardi). In realtà l’articolo 117 ammette solo, eventualmente, il «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», frase tutta da interpretare. Ed è un punto, a naso, su cui il governo concederà poco o niente. Che accadrebbe infatti se tutte le Regioni italiane, come è loro diritto, chiedessero lo stesso trattamento? Sembra più proficua la strada scelta dall’Emilia-Romagna: il governatore Stefano Boccaccini s’è semplicemente fatto autorizzare dall’assemblea (col voto contrario dei leghisti!) ad aprire un tavolo con Roma. E lui e Gentiloni, proprio l’altro giorno, hanno firmato un documento comune.