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 2017  ottobre 22 Domenica calendario

La mente artificiale e il senso del limite

L’Intelligenza Artificiale (IA) fa tendenza nel dibattito pubblico, non c’è chi non voglia dire la sua. Si tratta spesso di un dibattito emotivo, che oscilla tra l’entusiasmo e l’allarmismo. Leggiamo ogni giorno di macchine intelligenti che ci assistono o ci spiano, che deprimono l’umanità o la liberano dal lavoro, che curano malattie o seminano morte. E mentre l’immaginario galoppa, non notiamo ciò che già ora accade davanti ai nostri occhi.
Un anno fa, l’uomo più potente del mondo fu eletto col contributo forse determinante degli algoritmi di intelligence di Cambridge Analytica. La società di origine britannica vanta di saper scrutare nel cuore degli elettori, uno ad uno, collezionando e analizzando i dati che questi producono nella loro vita sociale. Facebook dal canto suo ha venduto servizi a oscure società russe che sono così state in grado di inviare messaggi mirati a supporto del suddetto potente. Si sa che tale pubblicità ad alta precisione è resa possibile dalla profilazione degli utenti, e che questa si basa sulle informazioni che ogni giorno essi forniscono alla piattaforma in cambio del suo uso gratuito. Chi è in grado di raccogliere tali dati e possiede potenza di calcolo e know-how per elaborarli può oggi influire sulle scelte di consumatori e votanti, e dunque sulle sorti del pianeta. Mentre ci domandiamo se alla reception dell’albergo troveremo presto un robot, sono già al lavoro automi che scrutano la nostra vita come agenti della Stasi, algoritmi che elucubrano attorno alla nostra personalità, bot che ci inviano messaggi manipolatori.
Oltre che movimento di merci, capitali e persone, la globalizzazione è oggi circolazione di dati. Si tratta però di vortici che si sviluppano attorno a pochi grandi collettori, i quali risucchiano gran parte dei flussi informativi generati dalle nostre esternazioni: ricerche, acquisti, viaggi, letture, apprezzamenti, tweet di varia umanità. I bit attraversano i confini nazionali alla velocità della luce e confluiscono in giacimenti dove vengono trasformati algoritmicamente in una merce preziosissima: la conoscenza di chi siamo e cosa siamo propensi a fare. Chi vuole vendere qualcosa di materiale o immateriale deve comprare questa merce dai pochi in grado di produrla. Una dipendenza che non ha nulla da invidiare a quella energetica. Se i dati sono il petrolio del nuovo millennio, e l’IA ne è la raffineria, c’è il rischio che l’ineguale distribuzione di flussi, giacimenti e impianti provochi aperti o sotterranei conflitti. Quando Elon Musk twitta che la competizione per il domino nell’IA potrebbe scatenare la terza guerra mondiale forse esagera, ma coglie un punto importante.
I sistemi nazionali stanno cercando di orientarsi in questo complesso scenario. I conflitti attuali non sono tra stati, ma tra questi e un numero crescente di sistemi di potere capaci di sottrarsi in larga misura alle loro giurisdizioni, fisco incluso. Le supposte ambizioni politiche di Mark Zuckerberg sono l’icastica rappresentazione dell’insorgenza di questi nuovi poteri, così come lo sono i violenti titoli del New York Times contro la Silicon Valley. Forse non scoppierà la terza guerra mondiale, ma quella che è iniziata nell’infosfera statunitense somiglia già a una guerra civile. Non si tratta delle classiche distorsioni monopolistiche: il combinato di intelligenza artificiale e big data che si dispone in aziende come Amazon, Facebook e Google piace alla gente, la sua pericolosità è socialmente apprezzata. Per governare l’industria ci vuole volontà politica, ma qui parliamo di un’industria il cui sottoprodotto è proprio il consenso.
Veniamo in Italia. Se una tecnologia può creare problemi di dipendenza economica e sovranità politica, da noi lo farà. La nuova informatica richiede notevoli competenze, e noi abbiamo 10 punti di distacco dalla media dei laureati dei paesi Ocse. In simile misura, i nostri addetti all’Ict sono al di sotto della media europea. Sono lontani i tempi di Olivetti e Finsiel, le startup italiane sono depresse, le infrastrutture rachitiche, le multinazionali investono per lo più a parole. La leadership tecnologica non è in questione, si tratta comunque di mettere benzina nel motore dei nostri servizi, dei nostri commerci, della Pubblica Amministrazione.
Al contrario della benzina, l’IA non possiamo rassegnarci ad importarla. Quei servizi di analisi, classificazione, ricerca semantica, dialogo, che ammiccano con le loro graziose interfacce da cloud gestite chissà dove non possono essere le fondamenta della nostra economia digitale. Quando carichiamo i nostri dataset nella pancia di quei servizi consegniamo le chiavi intellettuali del nostro business. Non è che non dobbiamo farlo: per le piccole imprese si tratta di una scelta quasi obbligata. Ma il soggetto a cui diamo le chiavi deve essere prossimo, accessibile, e comunque deve risiedere nel perimetro della nostra giurisdizione.
La Spagna mette 90 milioni nelle tecnologie linguistiche, pilastro dell’IA, la Francia 10 miliardi nelle startup. Noi che facciamo? L’Agenzia per l’Italia Digitale ha iniziato una riflessione su questi temi istituendo una Task Force e chiamando a raccolta la comunità nazionale. Sappiamo che bisognerà investire in ricerca, formazione, infrastrutture, asset strategici. Non potremo impegnare centinaia di miliardi come i cinesi, dunque dovremo usare l’intelligenza. Quella naturale.