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 2017  ottobre 11 Mercoledì calendario

Oliviero Toscani. «Il mestiere di fotografo è finito. Ma io torno a casa, da Benetton»

CHIASSO La notizia è il grande ritorno in Benetton. In mezzo un fiume in piena di pensieri sul mondo. Di ieri, oggi e soprattutto domani. Oliviero Toscani inaugura Immaginare, retrospettiva dedicata alla sua intera opera che sarà esposta al m.a.x. museo di Chiasso fino al prossimo 21 gennaio (lunedì chiuso). A partire dai primissimi anni alla scuola di fotografia di Zurigo e passando per tutte le più famose e geniali campagne pubblicitarie da lui studiate, pensate e, appunto, immaginate. 
È stato complesso lavorare sul suo archivio per raccogliere il materiale? 
«Io non ho archivio. In mostra ci sono solo cose pubblicate. Non mi masturbo con la fotografia per il compiacimento di una foto. Quelli sono i fotografi, io invece sono un immaginatore. Uso la fotografia, ma sono un autore. Non ho mai lavorato per le agenzie di pubblicità, io penso a una storia e la realizzo. Non sono un esecutore di immaginazioni altrui». 
Come nascono le sue idee? 
«Io non ho idee. La gente pensa che il risultato del mio lavoro sia un’idea, ma in realtà io sono un situazionista. In qualunque posto io sia, penso a che immagini si possano realizzare. Le immagini sono il risultato tra la mia cultura passata, quello che vedo adesso e quello che vorrei vedere in futuro: rendersi conto di certi problemi e cercare di risolverli». 
Crede ancora nel potere della fotografia? 
«La comunicazione è più accessibile grazie alle foto. Da quando esiste la fotografia possiamo conoscere la storia umana. Se ci fossero state le macchine fotografiche, i Vangeli non sarebbero stati scritti in quel modo». Adesso iniziamo a parlare di fake news, ma quelle cos’erano?» 
Le tecnologie hanno cambiato la fotografia? 
«Semplicemente oggi tutti possono fare fotografie. Ormai il mestiere di fotografo è finito, si deve essere autori. Poi ogni tempo ha le sue tecnologie, ma io credo che la tecnologia sia sempre vecchia, anche quella che deve ancora uscire. È l’emozione, pur essendo io laico e non credente, che è moderna: pensiamo alla Deposizione del Cristo di Mantegna che c’è a Milano. Altro che nuove tecnologie». 
Come vede Milano oggi? 
«Non lo dico da milanese, ma tutte le altre città d’Italia non fanno Milano. È una città grande grazie all’immigrazione, l’unica dove puoi dire di essere milanese dopo tre giorni che ci vivi. Peccato ora per questo referendum sull’autonomia perché fa ridere: le grandi civiltà sono diventate grandi perché si sono unite, non divise». 
Tra poco c’è l’anniversario del Sessantotto, che lei ha vissuto in gioventù. Cosa pensa dei giovani oggi? 
«Io sono pre-sessantottino e anzi mi stanno sulle palle quelli che hanno politicizzato il periodo, che in origine aveva lo spirito dell’immaginazione al potere. Oggi i giovani sono mediamente più intelligenti e più attenti, ma meno fantasiosi. È una generalizzazione, ma viene delegato troppo a queste protesi tecnologiche: le tecnologie sono un po’ come la droga, ma non è vero che sono le droghe a regalare una maggiore creatività». 
E i giovani che si lamentano di non avere spazio? 
«Non è mandando via i vecchi che si crea spazio. Io sono qui che aspetto che i giovani mi sorprendano. È assurdo che i Rolling Stones riempiano ancora gli stadi con un sacco di giovani. I giovani dovrebbero mandarci a cagare. Invece sono miti e gentili». 
Lei non ha nessuna intenzione di farsi da parte, quali sono i suoi prossimi programmi? 
«Torno a lavorare con Luciano Benetton. Riprendo in mano Fabrica e la loro comunicazione e immagine. Mi dispiaceva molto essere andato via da un’architettura che avevo fatto costruire per me».