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 2017  settembre 25 Lunedì calendario

La rivolta dell’inno: baseball, basket e football contro Donald Trump

Che il paese sia spaccato a metà è un fatto noto, ma uno scontro frontale di questa portata, con implicazioni anche razziali, forse non c’era dai tempi della Guerra Civile. Spiega Steve Kerr, allenatore dei Golden State Warriors, campioni della Nba: «Nella mia vita non ero mai stato testimone di un momento di tanta divisione come questo». La sua riposta, assieme a quelle pepate di Stephen Curry, di LeBron James e Kobe Bryant, sono state le prime reazioni ai missili incendiari di Donald Trump. La politica non era mai affiorata nello sport in modo così sfacciatamente aperto. Michael Jordan e Tiger Woods non si erano mai sognati di indignarsi per difendere i diritti civili della loro gente. LeBron, Curry, Kobe, Kerr, gli uomini di sport più ascoltati e non solo nel basket, si sono schierati senza timori di perdere sponsor o follower. Nessuno aveva mai osato chiamare il Presidente «straccione», come ha fatto senza mezzi termini King James.

FONDAMENTA Perché toccare la libertà di espressione di un cittadino è un po’ come minare le fondamenta di questa Nazione. Anche ieri mattina, Donald Trump è tornato sull’argomento, che solo poche ore prima aveva infiammato il mondo dello sport Usa. Con un altro dei suoi tweet velenosi: «Se i tifosi del football rifiutassero di andare allo stadio fino a quando i giocatori non smettessero di mancare di rispetto alla bandiera e al Paese, si vedrebbero cambiamenti molto rapidi». Siluri ben più esplosivi li aveva sparati il giorno prima via twitter e durante un comizio in Alabama venerdì. Il Presidente era andato giù pesante, con offese poco gradite pure a un buon numero di repubblicani: «Se quei figli di p… continueranno a inginocchiarsi all’inno, i proprietari dovrebbero licenziarli». E per ribadire il concetto, aveva gridato: «Fire them!» («Licenziateli»), come amava ripetere nel suo reality show di qualche anno fa, «L’Apprendista».

REAZIONE È l’appello a quella grossa fetta d’America, quella bianca e in parte meno raffinata, che lo sostiene, che alle sue parole ha esultato sui social e che contribuisce a riempire le tribune degli stadi. Perché il football è sport per bianchi, come sostiene il New York Times: «Tre quarti del pubblico che va a vedere la Nfl sono bianchi, mentre la percentuale si rovescia per i giocatori». La reazione si sta estendendo a macchia d’olio. Sabato c’è stata la prima forma di protesta nella Major League Baseball: Bruce Maxwell degli Oakland Athletics ha rotto il tabù di inginocchiarsi durante l’inno. Ma dopo gli attacchi diretti dell’inquilino della Casa Bianca, era il football l’osservato speciale. Per via del fuso orario, la giornata della Nfl è cominciata a Londra dove era in programma il match fra Baltimore Ravens e Jacksonville Jaguars. Una decina di giocatori per team ha messo giù il ginocchio alle prime note dell’inno Usa, imitando l’ex quarterback dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick, ispiratore della protesta la stagione passata e (forse per questo) ora senza lavoro.

A BRACCETTO Un segnale forte e di unità era arrivato dal commissioner Roger Goodell, che aveva difeso in modo chiaro e tranciante il diritto dei suoi tesserati alla libertà di espressione. Ieri, a Londra, è sceso in campo anche il pachistano Shalid Kahn, proprietario dei Ravens, l’unico non bianco e musulmano della Lega. Durante l’esecuzione di «The Star-Spangled Banner», tutta la squadra ha ascoltato tenendosi a braccetto, incluso lui, simbolicamente in mezzo ai suoi giocatori, quelli che secondo il Tycoon dovrebbe cacciare. Persino l’amico dichiarato, Robert Kraft, proprietario dei New England Patriots, campioni in carica, presente a fianco di Trump alla cena dell’inaugurazione, gli ha voltato le spalle: «Sono profondamente deluso per il tono usato dal Presidente nei suoi commenti». Sempre nel football, l’intera rosa dei Pittsburgh Steelers ha scelto di restare nello spogliatoio durante l’inno. Era stato Curry venerdì a innescare la polemica, dicendo di non voler andare a Washington al cospetto di Trump, che aveva reagito stizzito ritirando l’invito. Ieri, l’ex Mvp della Nba, ha rincarato la dose: «Dopo le reazioni del Presidente, sono ancora più convinto che il Paese sia gestito molto male». Dicono che attaccare gli lo sport e gli idoli della gente comune non sia stata la mossa migliore. Per la «salute» della Casa Bianca, la Corea potrebbe essere ora il male minore.