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 2017  settembre 25 Lunedì calendario

Le guerre dopo la pace. Alla fine del primo conflitto mondiale non terminarono stragi e sofferenze

C’è una considerevole parte d’Europa (e non solo) per la quale gli anni successivi alla Prima guerra mondiale hanno contato molto di più – anche in termini di sofferenze – di quelli tra il 1914 e il 1918. In primo luogo la Russia, la cui storia nel Novecento inizia – per così dire – con le due rivoluzioni del 1917. Ma anche l’Ucraina, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Finlandia, la Serbia, l’Irlanda. E, dall’altra parte del Mediterraneo, l’intero Medio Oriente. Lì il ricordo della Grande guerra è quasi sfocato rispetto a quello ben più nitido degli anni successivi al conflitto. Proprio perché per molti Paesi europei la Prima guerra mondiale non finì affatto nel 1918 e anzi, per alcuni, il periodo che seguì fu più sanguinoso del precedente. Se ne accorse già nel maggio del 1919, un quotidiano austriaco ad ampia diffusione, «Innsbrucker Nachrichten», che pubblicò un editoriale, dal titolo La guerra in tempo di pace, nel quale si constatava con un certo allarme che la violenza postbellica aveva investito un arco territoriale che andava dalla Finlandia e dagli Stati baltici, alla Russia, all’Ucraina, alla Polonia, all’Ungheria, alla Germania e all’Austria stessa. Per estendersi, attraversati i Balcani, all’Anatolia e al Caucaso. Forse per una distrazione l’articolo non menzionava l’Irlanda, che pure durante la guerra d’Indipendenza (1919-21) e il successivo conflitto civile (1922-23) avrebbe conosciuto drammi assai simili a quelli che allarmavano il giornale austriaco. Drammi che avrebbero trovato il loro apogeo nelle due settimane del settembre 1922 in cui i turchi rientrarono in possesso di Smirne, diedero ai loro uomini licenza di saccheggiare nonché di uccidere e i morti, tra greci e armeni, furono trentamila.
Nel 1919, su impulso del primo ministro britannico David Lloyd George, un esercito di invasione greco era sbarcato a Smirne. Adesso, dopo tre anni di feroci scontri armati, i soldati di Mustafa Kemal riconquistavano la città e per prima cosa catturavano l’arcivescovo ortodosso Chrysostomos, reo ai loro occhi di aver, a suo tempo, sostenuto l’invasione greca. Il metropolita fu consegnato a una folla inferocita che lo rinchiuse nel negozio di un barbiere ebreo. E fu il proprietario della bottega a descrivere ciò che accadde in seguito: «Qualcuno afferrò un telo bianco, lo mise attorno al collo dell’uomo e urlò: “Dagli una rasata!”. Al prelato strapparono poi la barba, gli cavarono gli occhi con dei coltelli, gli amputarono le orecchie, il naso e le mani. Il corpo martoriato venne quindi trascinato in un vicolo, scaraventato in un angolo dove avrebbe conosciuto la morte dopo ore e ore di inumane sofferenze». Fu anche questa l’Europa del primo dopoguerra. Un continente descritto adesso con grande efficacia da Robert Gerwarth nel libro La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra 1917-1923 che, nell’eccellente traduzione di David Scaffei, Laterza manderà a giorni in libreria. 
Per coloro che nel 1919 vivevano a Riga, Kiev, Smirne o in molte altre località dell’Europa orientale, centrale e sud-orientale, scrive Gerwarth, non ci fu pace in quegli anni, «ma solo una continua scia di violenze». La guerra mondiale, notò già allora il filosofo russo Pëtr Struve – che aveva militato dapprima con i socialisti e successivamente dalla parte dei «russi bianchi» – «terminò formalmente con la firma dell’armistizio, ma di fatto tutto ciò che da quel momento in poi abbiamo vissuto e continuiamo a vivere, non è che una continuazione e una trasformazione della guerra mondiale». Solo fra il 1917 e il 1920, nota lo storico, in Europa si ebbero ben 27 mutamenti politici violenti, molti dei quali accompagnati da guerre civili latenti o conclamate. Il caso più estremo fu quello della Russia dove «l’ostilità fra i sostenitori del colpo di Stato attuato dai bolscevichi di Lenin nel 1917 e i loro oppositori degenerò rapidamente in una guerra civile di proporzioni senza precedenti, che alla fine avrebbe provocato ben più di tre milioni di vittime». Tre milioni di vittime.
I Paesi europei sconfitti nella Grande guerra, scrive lo studioso, «spesso sono stati descritti o attraverso il prisma della propaganda o assumendo il punto di vista del 1918, quando la legittimazione dei nuovi Stati nazionali dell’Europa centro-orientale esigeva la demonizzazione degli imperi dai quali si erano distaccati». Un genere di lettura che indusse alcuni storici occidentali a «interpretare la Prima guerra mondiale nei termini di un’epica lotta tra gli Alleati democratici da una parte e gli Imperi centrali autocratici dall’altra (tralasciando il fatto che l’impero più autocratico in assoluto, la Russia di Nicola II, aveva fatto parte della Triplice Intesa)». In anni più recenti però, riconosce l’autore, un numero crescente di ricerche sugli ex imperi ottomano, tedesco e austriaco ha messo in discussione la leggenda nera secondo la quale gli Imperi centrali «erano più o meno degli Stati canaglia e delle anacronistiche prigioni dei popoli». La «riabilitazione» è stata relativamente agevole per la Germania e l’Impero asburgico, che oggi appaiono agli storici «in una luce molto più benevola (o quantomeno più sfumata)» di quanto non fosse stato fino alla fine del Novecento. Ma anche riguardo all’Impero ottomano, dove il genocidio degli armeni avvenuto durante la guerra sembrava confermare la «natura malvagia» di quell’impero stesso che avrebbe usato «la violenza per sopprimere le minoranze», bene, rispetto a questa lettura sta adesso gradualmente venendo alla luce un quadro che viene presentato come assai più complesso.

E anche se si considerano eccessive queste «riabilitazioni» degli imperi prebellici, aggiunge Gerwarth, «sarebbe difficile sostenere che l’Europa postimperiale fosse un luogo migliore e più sicuro rispetto a quella del 1914». Era dai tempi della guerra dei Trent’anni (1618-1648) che nel nostro continente non si assisteva a un intreccio di conflitti, «ma soprattutto di guerre civili dai confini così indefiniti e dal carattere così cruento come quelle degli anni successivi al 1917-18». Con scontri armati che si sovrapponevano alle rivoluzioni, alle controrivoluzioni, e alle ostilità di confine fra Stati in formazione, privi di frontiere chiaramente definite e di governi riconosciuti dalla comunità internazionale, con tutte queste esplosioni di odio «l’Europa postbellica degli anni che vanno dalla conclusione ufficiale della Grande guerra nel 1918 al trattato di Losanna del luglio 1923, fu il luogo più violento del pianeta». Anche a non voler calcolare i milioni di decessi provocati fra il 1918 e il 1920 dalla pandemia di influenza spagnola o le centinaia di migliaia di civili che da Beirut a Berlino perirono di fame in conseguenza della decisione alleata di mantenere il blocco economico anche dopo la fine delle ostilità, scrive Gerwarth, le vittime dei conflitti armati dell’Europa in quei cinque anni furono «più delle perdite subite complessivamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dagli Stati Uniti nel corso della Grande guerra». Milioni e milioni di morti. Ai quali vanno aggiunti altri milioni di profughi impoveriti provenienti dall’Europa centrale, orientale e meridionale, che vagarono negli scenari stravolti dalla guerra dell’Europa occidentale, alla ricerca di sicurezza e di una vita migliore. Talché secondo l’autore de La rabbia dei vinti non si può dar torto a quegli storici dell’Europa orientale (tipo Peter Holquist) che hanno definito la stagione successiva al 1918 come un’epoca di «prolungata guerra civile europea».
Se questo tema per decenni ha scarsamente attirato l’attenzione degli storici, la colpa è probabilmente della cultura anglosassone. Winston Churchill, ad esempio, liquidò i conflitti postbellici di cui stiamo parlando definendoli «guerre di pigmei». Secondo Gerwarth parole così sprezzanti riflettono «quell’atteggiamento intriso di pregiudizi antiorientali (e d’impronta implicitamente coloniale) nei confronti dell’Europa dell’Est che, dopo il 1918, prevalse per decenni nei libri di testo occidentali». Un derivato dell’idea sviluppatasi tra la crisi balcanica (1875-78) e le due guerre balcaniche (1912-13) che i Balcani, appunto, e con essi l’intera Europa orientale «fossero in un certo senso intrinsecamente violenti, al contrario dell’Occidente civilizzato e pacifico». Di un Occidente quantomeno caratterizzato, secondo questa visione culturale, da una radicata vocazione alla pace.

Si può dire che la stagione di cui stiamo parlando iniziò con la Rivoluzione d’ottobre. La Grande guerra cambiò natura quando la rivoluzione bolscevica determinò l’uscita della Russia dal conflitto e gli Alleati, rafforzati dalla discesa in campo degli Stati Uniti al loro fianco, «perseguirono sempre di più lo smantellamento degli imperi europei come un obiettivo della guerra». Anzi: come se fosse stato fin da principio il reale obiettivo della guerra stessa. Gli eventi russi ebbero un «duplice effetto»: l’ammissione della sconfitta da parte di Pietrogrado aumentò le aspettative di vittoria imminente da parte degli Imperi centrali («solo qualche mese prima che la loro definitiva sconfitta li portasse a cercare quei nemici “interni” a cui attribuivano la causa del crollo»), infondendo allo stesso tempo «nuove possenti energie in un continente lacerato dalla guerra e, dopo quattro anni di combattimenti, maturo per la rivoluzione».
Fu proprio in questo periodo, secondo Gerwarth, «che un conflitto fra Stati particolarmente cruento ma in definitiva convenzionale come era stata la Prima guerra mondiale» lasciò il posto «a una serie di conflitti interconnessi la cui logica e il cui scopo erano molto più pericolosi». Rispetto alla Grande guerra, che venne combattuta con l’obiettivo di «costringere il nemico ad accettare determinate condizioni di pace (per quanto severe esse fossero)», la violenza successiva al 1917-18 fu infinitamente più «ingovernabile». Si trattava di «conflitti per la vita o la morte, combattuti per annientare il nemico, etnico o di classe, secondo una logica genocida che in seguito sarebbe diventata dominante in gran parte dell’Europa fra il 1939 e il 1945».

La rabbia dei vinti fa notare poi che «un altro aspetto rilevante dei conflitti successivi al 1917-18 sta nella circostanza che essi esplosero dopo un secolo nel corso del quale gli Stati europei erano in vario grado riusciti a imporre il loro monopolio sulla violenza legittima: gli eserciti regolari erano diventati la norma, e la distinzione fondamentale fra combattenti e non combattenti era stata codificata (anche se poi spesso violata in pratica)». I conflitti del dopoguerra, nota l’autore, invertirono questa tendenza. Nei territori degli ex imperi europei, dove erano assenti organizzazioni statali in grado di funzionare efficacemente, «il ruolo degli eserciti nazionali venne assunto da milizie di vario orientamento politico e la linea di demarcazione fra amici e nemici, fra combattenti e civili, divenne terribilmente incerta». La rabbia dei vinti propone l’ipotesi che «per comprendere i violenti percorsi che l’Europa – Russia ed ex territori ottomani in Medio Oriente compresi – seguì durante il XX secolo, è necessario prendere in considerazione non tanto le esperienze belliche degli anni tra il 1914 e il 1917, quanto il modo con cui la guerra si concluse per gli Stati che la persero: disfatta, crollo degli imperi, agitazione rivoluzionaria».
A questo punto Gerwarth punta l’indice contro le ricerche storiche tradizionali: «Nella letteratura internazionale manca un volume che analizzi in una prospettiva d’insieme le esperienze di tutti gli Stati europei sconfitti nella Grande guerra». Se ci fosse, ne verrebbe fuori un grande affresco del «potere mobilitante della sconfitta». Da notare che negli Stati europei che avevano vinto la guerra (con l’eccezione quasi irrilevante in questo contesto dell’Italia e della parte irlandese del Regno Unito) dopo il 1918 «non si registrò un sostanziale aumento della violenza politica, anche perché la vittoria militare aveva giustificato i sacrifici degli anni di guerra e legittimato ulteriormente le istituzioni». Non si può dire lo stesso per i Paesi sconfitti: «Nessuno di essi riuscì a ritornare a livelli di stabilità e di pace interna paragonabili a quelli dell’anteguerra». Con l’aggravante che, causa la disgregazione degli imperi di cui si è detto, milioni di persone furono arbitrariamente affidati a Stati di nuova formazione o modificati rispetto al loro assetto precedente alla guerra: tedeschi alla Cecoslovacchia, all’Italia e alla Polonia, magiari alla Cecoslovacchia, alla Jugoslavia e alla Romania, bulgari alla Romania e alla Grecia. Cosicché Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia, più che Stati nazionali, si trovarono a essere imperi in miniatura. Differenti dal precedente grande Impero asburgico non già per la purezza etnica bensì, come s’è detto, per dimensioni e, a sorpresa, per il «capovolgimento delle gerarchie etniche interne». Ciò che avrebbe contribuito non poco a innescare la Seconda guerra mondiale.