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 2017  settembre 20 Mercoledì calendario

L’Italia degli stupri silenziosi. In 9 casi su 10 niente denunce

Inumeri non sono segreti, e nemmeno nuovi: ogni giorno in Italia vengono stuprate dalle 9 alle 11 donne. Dai nove agli undici casi simili, nell’orrore indicibile, a quello che ha coinvolto la dottoressa di Catania, la donna tedesca di Roma, la turista polacca di Rimini. Cioè a quelli raccontati, a volte con odiosa minuzia (ieri costata anche un richiamo dal Garante della privacy), sui giornali e in televisione.
È successo più spesso tra il 2012 e il 2013 (alla fine dell’anno i casi denunciati furono quasi 5mila), un po’ meno tra il 2013 e il 2014 (4.607), ancora meno l’anno successivo (3.624). Il confronto tra il 2017 e il 2016 non riserva per ora sorprese: da gennaio a luglio dell’anno scorso il Viminale aveva registrato 2.345 violenze sessuali, che sono scese a 2.333 quest’anno.
La punta dell’iceberg. Gli addetti ai lavori – cioè chi è impegnato h24 accanto alle donne e ne raccoglie le richieste d’aiuto, dai centri antiviolenza ai pronto soccorso degli ospedali attrezzati fino alle associazioni del terzo settore – sa che la vera emergenza è il non detto: il numero, cioè, degli stupri che avvengono sì, ma di cui nessuno sa niente. E per cui nessuno, o quasi, fa niente. Secondo l’Istat – gli ultimi dati disponibili sono quelli relativi al 2014 – vengono commessi nel 62,7% dei casi da partner o ex, nel 3,6% da parenti e nel 9,4% da amici. Il che significa, questa sì una sorpresa: in quasi 8 casi su 10 la violenza sessuale non avviene per strada, ad opera di uno sconosciuto, come a Catania, Roma, Rimini.
Di più: secondo un altro rapporto, stavolta quello stilato dall’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, solo il 14% delle donne denuncia gli abusi del partner, percentuale che per l’Italia scende al 10%. Risultato: della quasi totalità degli stupri – che dunque avviene tra le mura domestiche o per mano di chi le donne conoscono e amano – non c’è traccia.
L’urgenza di risposte. «È su questo fronte che serve l’attenzione e l’impegno di tutti, attraverso politiche e interventi strutturali e non emergenziali», spiega il presidente di Telefono Rosa, Maria Gabriella Carnieri Moscatelli. L’associazione, impegnata accanto alle donne ormai dal 1988, gestisce ogni giorno le mi- gliaia di richieste d’aiuto che arrivano al centralino pubblico attivato dalla presidenza del Consiglio (il 1522). E Moscatelli tre anni fa, in occasione dello stupro di un’altra donna di turno in guardia medica come quello avvenuto a Catania, aveva già chiesto misure immediate d’intervento: «È un buon esempio di come manchi lungimiranza negli interventi da adottare. Allora avevamo chiesto con insistenza una cosa semplicissima: che nessuna donna resti sola, di notte, a coprire un servizio pubblico». Oggi, «subito – continua – servono più controlli nelle città, più sostegno ai centri che si occupano di violenza, più prevenzione e cultura nelle scuole». Dello stesso parere Titti Carrano, fondatrice della Rete dei Centri antiviolenza Dire (oltre 70 strutture in tutta Italia, che ogni anno accolgono 16mila vittime): «Bene che si ricordi, complici i terribili fatti di cronaca, che l’orrore dello stupro esiste – fa notare –. Fondamentale che alla riflessione si aggiungano i femminicidi, gli abusi fisici e psicologici di ogni tipo a cui le donne sono sottoposte quotidianamente e che con gli stupri condividono la radice comune contro cui dobbiamo combattere: quella della violenza di genere». Troppo spesso, o troppo in fretta, dimenticata.
L’impegno del governo. La Lega ora chiede «la castrazione chimica e la galera», il Movimento 5 stelle col sindaco di Roma Virginia Raggi «leggi speciali». Le leggi, però, ci sono, e gli strumenti per combattere e prevenire la violenza sulle donne pure. In queste settimane, a partire dalla vicenda di Rimini, l’esecutivo è sceso in campo col sottosegretario alla presidenza del Consiglio che ha la delega alle Pari opportunità, Maria Elena Boschi. Il 7 settembre scorso con la Cabina di regia e l’Osservatorio contro la violenza sulle donne si è discusso, in particolare, il nuovo Quadro strategico nazionale e le prime Linee guida per le aziende sanitarie e ospedaliere che prestano assistenza alle vittime. Il Piano prevede, tra le altre cose, il coordinamento di Stato, Regioni, Comuni per la prevenzione della violenza di genere e la protezione delle vittime con il coinvolgimento di associazioni e centri anti violenza. Sulla carta, tutto bene. I nodi da sciogliere, però, sono molti. «Quello dei fondi per esempio» fa notare Moscatelli. La mente corre allo scandalo di quelli stanziati proprio dal governo per il triennio 2013-2016: da una relazione della Corte dei Conti di settembre scorso si scoprì che di 40 milioni di euro a disposizione ne furono impiegati appena 6mila. Colpa delle Regioni, si disse, e ancora si aspetta una relazione della Commissione d’inchiesta sui femminicidi che spieghi esattamente come sono andate le cose. «Il punto è anche che i fondi siano anche ben distribuiti» precisa la Carrano, critica per esempio sul bando di 10 milioni indetto dal Dipartimento delle Pari opportunità prima dell’estate e che ha il difetto di non prendere in considerazione soltanto i Centri antiviolenza accreditati e operativi, di cui per altro nel nostro Paese manca ancora una mappatura ufficiale. «Un problema emerso anche nel Piano, in cui proprio il ruolo dei centri antiviolenza – cioè di chi la violenza conosce e affronta ogni giorno – è ancora troppo confuso e marginale». C’è tempo per cambiare passo.