CorrierEconomia, 18 settembre 2017
Pasticci iraniani. Quanti affari congelati
L’Italia assapora le dolcezze della ripresa trainata dall’export e intravede spazi di ulteriore crescita.
Un nutrito numero di aziende vorrebbe conquistare il mercato iraniano, alla vigilia di una grande modernizzazione del Paese. Molte hanno già i contratti in tasca. Tra intese già firmate e mou (memorandum of understanding) si tratta di un volume potenziale di affari stimato tra i 18 e i 30 miliardi.
Teheran è già tra le prime venti economie al mondo. Ottanta milioni di abitanti, il 60% sotto i 30 anni, ottimo livello di istruzione. Dopotutto si tratterebbe di ritornare su un solco antico di fruttuosi rapporti bilaterali. Non tanto ai tempi dell’Eni di Mattei e dello Scià o della costruzione del porto di Bandar Abbas. L’Italia è stata a lungo il primo partner commerciale occidentale dell’Iran. E avrebbe avuto tutti i titoli per essere inclusa nel format diplomatico 5 più 1 che ha trattato con Teheran la fine dell’embargo.
Gli Usa e il cambio di rotta
Dopo il Joint Comprehensive Plan of Action l’accordo per la progressiva abolizione delle sanzioni sul nucleare entrato in vigore il 18 ottobre 2015 i viaggi delle delegazioni commerciali di molti Paesi nella capitale iraniana sono stati pressoché giornalieri. L’impegno italiano non è stato da meno. Alta l’attenzione dei governi Renzi e Gentiloni. Una linea di concretezza apprezzata dalla Confindustria, in particolare dalla vice presidente per l’internazionalizzazione Licia Mattioli, e dalle molte aziende coinvolte. Una lista lunghissima. Non solo le più grandi (Saipem, Danieli, Ferrovie dello Stato, Anas, Itinera, Ansaldo, Fata, Marcegaglia), ma anche molte piccole e medie con contratti al di sotto dei 100 milioni.
Il cambio alla Casa Bianca, con l’arrivo di Donald Trump, ha suscitato dubbi legittimi sulla linea diplomatica americana e comprensibili cautele. La Boeing, comunque, ha raggiunto recentemente un preaccordo per la fornitura di aerei per 3 miliardi di dollari. Anche General Electric non si è fatta molti problemi. Gli Stati Uniti sanzionano soprattutto per ragioni legate alla lotta al terrorismo i soggetti terzi che hanno relazioni con società di alcune nazioni “sorvegliate speciali”, non solo l’Iran, secondo le norme dell’Office of Foreign Assets Control.
La necessaria cautela non ha impedito a diversi Paesi di andare avanti nei loro rapporti commerciali con l’Iran. La Corea del Sud ha raggiunto un accordo il 24 agosto con 12 banche iraniane per finanziare affari per 8 miliardi. I francesi si sono già mossi con Psa, Renault e Total. Il 21 settembre è prevista la firma a Vienna tra la Oberbank e un pool di banche iraniane. Comunque nel maggio scorso la Banca d’Italia ha preso atto dell’apertura a Roma dell’ufficio di rappresentanza di una banca privata iraniana, la Saman Bank.
L’Italia invece è ferma. La Cassa depositi e prestiti (Cdp), che dovrebbe mettere in campo crediti e sbloccare le garanzie di Sace e Simest, teme le ritorsioni americane. E si oppone con una certa risolutezza alle pressioni del proprio azionista, il ministero dell’Economia.
Il risiko e i rimedi
L’istituto guidato da Fabio Gallia sostiene di non voler correre due rischi, a maggior ragione essendo un ibrido pubblico-privato. Il primo rischio è di compliance, ovvero multe salate. E si ricorda il caso di Intesa perseguita con una sanzione di 235 milioni ma per violazione delle regole anti riciclaggio. Per non parlare del caso Bnp Paribas (8,83 miliardi di dollari per mancato rispetto dell’embargo) o di Hsbc. Il secondo rischio, che intravvedono alla Cdp, è di mercato perché un’eventuale sanzione minerebbe la sua capacità di finanziarsi, emettendo la Cassa obbligazioni. Il consiglio di amministrazione, dove siedono i rappresentanti del Tesoro, sarebbe unanime nell’appoggiare questa posizione.
Il presidente Claudio Costamagna (che siede nel board dell’americana Fti Consulting) ha spiegato ai consiglieri la portata devastante, anche per la gestione del debito pubblico, visto il ruolo delle banche americane, di un rischio che ha definito comunque assai remoto. Cdp si dice impegnata nel trovare soluzioni alternative e auspica un accordo tra le agenzie per l’esportazioni dei principali Paesi europei. La tensione è palpabile, anche perché Mediobanca, che dovrebbe finanziare una parte delle esportazioni, non sembra avere le stesse preoccupazioni. La presenza a Teheran dell’Istituto di piazzetta Cuccia é storica. Prima dell’embargo erano state finanziate 28 operazioni per un controvalore di più di un miliardo.
Una certa irritazione, per usare un eufemismo, si coglie anche al ministero dello Sviluppo economico. Il ministro Carlo Calenda si è speso molto, insieme al suo collega Padoan, per sbrogliare la matassa iraniana. Molte riunioni, pochi risultati. Le imprese hanno cominciato a scrivere sia a Confindustria sia ai ministeri: vedono i loro concorrenti muoversi con maggiore libertà. L’incertezza non giova.
Il ministero dell’Economia, non riuscendo a convincere i vertici di Cdp, sta studiando soluzioni alternative. Per esempio procedure di due diligence della controparte iraniana per prevenire eventuali contestazioni americane.
C’è il tema del rischio politico di un cambio sostanziale della linea occidentale nei confronti dell’Iran che potrebbe essere assunto, in forme da definire, direttamente dallo Stato. Ma al di là degli aspetti contrattuali emerge il nodo politico di fondo. Qual è l’orientamento del governo? Se decide di dar seguito al risultato delle missioni a Teheran pur con tutte le cautele diplomatiche allora non può fermarsi davanti ai rilievi, tecnici e legittimi, dei vertici di una società che controlla all’82,77 per cento. Se invece ritiene che lo scenario sia del tutto cambiato con Trump alla Casa Bianca forse non sarebbe male dire alle aziende interessate che quelle in Iran, strombazzate come svolte epocali, erano poco più che missioni turistiche.