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 2017  settembre 13 Mercoledì calendario

Il «santone» dei Beatles? Secondo Oriana Fallaci niente di trascendentale

Nuova Delhi, agosto-settembre
Primo giorno. Come avrò fatto, mi chiedo, a non avvertire prima la necessità di tale viaggio e vivere nella assoluta ignoranza di Sua Santità Maharishi Mahesh Yogi. Quando penso che i Beatles lo scelsero come «unica alternativa alla marijuana e alla LSD», poi vennero fin qui per lui, insieme alle mogli, le cognate, le fidanzate. Quando penso che Mia Farrow fece lo stesso quando fallì il suo matrimonio con Frank Sinatra, che duecentocinquantamila persone lo venerano come un messia: dagli Stati Uniti alla Nuova Zelanda, dalla Scandinavia alle Filippine, dal Giappone al Brasile, cattolici, protestanti, buddisti, ebrei, atei. Quando penso che ovunque egli vada la folla si inginocchia ai suoi piedi e gli bacia la veste, creature senza pace si salvano semplicemente ascoltando la lieta novella della sua meditazione trascendentale.*** 
Sesto giorno. Sono ormai convinta che si tratti di un grosso bluff. Tale certezza è avvalorata da altre cose che ho saputo. Non è vero che i Beatles siano in buoni rapporti con lui. Ringo se ne andò quasi subito, bestemmiando. Paul partì dopo due settimane, maledicendo. Quanto a George e John, c’erano quelli della troupe quando il dramma avvenne. D’un tratto si udì un gran frastuono e George apparve con John, seguito dai portatori di valigie. Gridavano come pazzi e facevano un gesto che consiste nel portare il braccio destro verso il braccio sinistro, poi nell’abbattere la mano destra nell’incavo del braccio sinistro che nello stesso momento si chiude a forbice. Un gesto che suppongo i Beatles abbiano appreso in Italia. Tale gesto era diretto al Maharishi che li seguiva inciampando, implorando, ma loro non si facevano raggiungere e, giunti al cancello, gridarono: «Raccontala agli altri la meditazione trascendentale!». Ora i Beatles vanno in giro dicendo di aver commesso un errore a credere nel Grande Saggio: egli è, come dire?, «troppo umano». E di certo egli «non si costruirà un tempio d’oro coi loro quattrini», è più facile che il tempio d’oro se lo costruiscano loro con la canzone che sintetizza l’esperienza di Rishikesh. La canzone si chiama The Fool Who Lives on the Hill, lo scemo che vive sulla collina.
Ho accettato di recarmi a Rishikesh, accompagnata da Devendra. Un viaggio difficilissimo anche perché Devendra puzzava. Io l’ho fatto andare avanti con l’autista ma lui puzzava lo stesso. La strada era seminata di cani schiacciati perché in India si guida in modo assai disinvolto. Per giungere in vista dell’Himalaya ci sono volute otto ore durante le quali Devendra mi ha raccontato di quando era avvocato in Australia ma lì conobbe il Grande Saggio e così cambiò vita. Finalmente siamo arrivati a un ponte, sospeso a un’altezza vertiginosa sul Gange. Per passare il ponte ci voleva il permesso del santuario e così Devendra ha telefonato: perbacco, c’è anche il telefono lì. È subito giunto un gippone che ci ha portato su per il monte e siamo giunti così al santuario che è una specie di villaggio chiuso dal filo spinato. Lì dentro v’è una specie di parco, coi vialetti di ghiaia. Lungo i vialetti di ghiaia vi sono villette per i meditatori. Con l’acqua corrente, la luce elettrica, i moderni comfort. C’è anche un ufficio postale, una specie di ristorante, un edificio per tenerci le lezioni di meditazione trascendentale, e una piscina nuova. Sissignori, una piscina. La cosa più importante però non è questa: è la villa del Grande Saggio. Perbacco, ne ha fatta di carriera dal giorno che uscì dalla caverna. S’è costruita una villa che basterebbe a Elizabeth Taylor: aria condizionata, tutto. Due piani, porticato intorno. Bei tappeti, moquette. Vedessi la stanzina dove medita, dinanzi al ritratto di Shankaracharya Swami Brahmananda Saraswati. Neanche un maragià si tratta così: luce diffusa, incensi, velluti. Guardo sbalordita e penso ai santoni cui per letto basta una striscia di terra, per cibo una pera. Ecco perché ieri sera, tornato a Nuova Delhi, voleva andare al night club. Rivedo ancora la scena, giù al piano terreno dell’Oberoi. Il Grande Saggio ha appena visitato il Club della salute per instaurarci un centro di meditazione trascendentale, accanto al bagno turco e alla saletta massaggi. È con un gruppo di ricchi, insieme avanzano lungo il corridoio: le signore coi sari d’oro e d’argento, i signori col turbante rosa, lui col suo dhoti. È guarito della bronchite. D’un tratto, ecco il night club da cui esce una musica folle. Gli occhi del Grande Saggio si accendono di desiderio, il suo passo si allenta, si ferma. «Vuole entrare?» chiede una signora, con un certo imbarazzo. Lui ha un momento di esitazione, mi guarda mentre lo guardo, risponde no: un’altra volta. Ma quanti anni avrà?
Ultimo giorno. Il Maharishi è partito. Lo abbiamo accompagnato all’aeroporto dove lo aspettavano una ventina di fedeli e, mentre loro gli baciavano i piedi, sono riuscita a scoprire l’età. È stato quando Charlie ha riempito il foglio di emigrazione: si recavano a Düsseldorf. Be’, è nato nel gennaio del 1912: ha solo cinquantasei anni. Pochi per un santone indù, troppo pochi. E così pensando mi son messa a studiarlo con nuova attenzione. La pelle non è rugosa, le gambe non sono stanche: dagli una bella rasata di barba e capelli e... Però, sai cosa? Se gli togli la barba e i capelli, non sembra neanche più indiano. Che sia portoghese? No, a mio parere è italiano. Ora lo metto alla prova. L’altoparlante chiama il volo per Düsseldorf, il Grande Saggio si avvia con Charlie verso la pista: mentre i fedeli gli lanciano fiori. Con le mani mi fo imbuto alla bocca e chiamo: «Neh, cumpà!». Rapido si volta, sembra dire: «Ca’ sto!». Ed è troppo tardi quando si accorge che sono io: gli sto strizzando un occhio.

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Com’è piccolo il Sessantotto italiano visto dalla Luna
Nel 1968, in Vietnam c’è l’offensiva del Tet; la rivoluzione culturale di Mao si spinge fino a Macao e Hong Kong; negli Stati Uniti sono assassinati Martin Luther King e Bob Kennedy; in Messico, una manifestazione nella capitale viene stroncata nel sangue; Apollo 8 percorre la prima orbita lunare e pone le basi dello sbarco di Armstrong. In Africa, una carestia affligge il Biafra. In Europa, la Cecoslovacchia cerca di liberarsi dal giogo sovietico e viene invasa dall’Armata Rossa. A parte gli ultimi due eventi, tutti gli altri hanno avuto Oriana Fallaci come testimone o come reporter d’inchiesta. In Messico, come è noto, fu ferita da una pallottola. Gli scritti di quei mesi straordinari (soprattutto nel male) sono ora riuniti in 1968. Dal Vietnam al Messico. Diario di un anno cruciale (Rizzoli, pagg. 460, euro 20; in libreria da domani). Il libro è prezioso perché contiene una dozzina di lunghi reportage mai usciti in volume. Tra questi, l’irriverente incontro in India con il Maharishi Mahesh Yogi, passato alla storia come il guru che incantò i Beatles, Mia Farrow, Donovan. Ma non Oriana Fallaci. In mezzo a tanto dolore, un articolo leggero, come era nelle corde della scrittrice. Ne pubblichiamo uno stralcio, per gentile concessione, in questa pagina. Guardando 1968 nel suo insieme colpisce l’assenza del nostro 1968. Ma si capisce: inquadrato negli avvenimenti di quell’anno, il nostro mitizzato Sessantotto si rivela un episodio marginale. In Niente e così sia, libro sul Vietnam nato dai reportage del 1968, la Fallaci scrisse una frase sul movimento studentesco. Questa: «Vandalismi di studenti borghesi che osano invocare Che Guevara e poi vivono in case con l’aria condizionata».

Alessandro Gnocchi