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 2017  settembre 13 Mercoledì calendario

Se Mastella è assolto dopo nove anni

Se vogliamo misurare la distanza che ci separa dall’Europa non esiste metro migliore del tempo dei processi. Nove anni per una sentenza di primo grado sono uno scandalo, a cui tutti gli italiani sembrano essersi rassegnati. Ed è drammaticamente paradossale che Clemente Mastella abbia rassegnato le dimissioni da ministro della Giustizia proprio per l’accusa da cui ieri è stato completamente scagionato.
Si é trattato di una vicenda clamorosa: il 18 gennaio 2008 la moglie di Mastella finì agli arresti domiciliari e lui venne indagato. Un procedimento che innescò la fine del secondo governo Prodi, alterando lo scenario politico del Paese. Il reato contestato dai pubblici ministeri di Santa Maria Capua Vetere sulla carta era pesantissimo: la tentata concussione, a cui inizialmente si era aggiunta l’associazione per delinquere, caduta sei anni fa. La conferenza stampa dell’allora procuratore capo – diventato celebre per frasi tipo «E mò se cade il governo fosse colpa mia?» – rimane uno dei momenti più bassi nella storia della giustizia italiana. Ma il resto dell’iter processuale è stato ancora peggiore.
Non per il merito dell’accusa, perché si trattava dell’antica difficoltà di delineare il confine tra il codice penale e questione morale, tra reati e metodi spartitori degli incarichi pubblici. La vittima della tentata concussione, l’allora presidente della Regione Campania Antonio Bassolino, ha negato qualunque ricatto per la nomina di un commissario della Asl vicino a Mastella: si trattava di “normali” trattative politiche. E infatti la contestazione è stata nel corso del dibattimento ridotta dai pm a una «induzione indebita a dare o promettere utilità», anche questa però bocciata dai giudici. Al massimo – ha deciso il Tribunale – si sarebbe potuto ipotizzare l’abuso d’ufficio ma in ogni caso il fatto attribuito a Mastella non costituisce reato.
Lo scandalo è tutto nella lunghezza del processo: oltre sei anni dal rinvio a giudizio alla sentenza di primo grado. Non si tratta di un’eccezione, anche se la durata media nazionale è di circa seicento giorni. D’altronde lo scorso anno c’erano un milione e 210 mila dibattimenti aperti nei tribunali. E di questi 228 mila erano in corso da più di tre anni: tutti gli imputati erano già in condizione di chiedere un risarcimento allo Stato per «la non ragionevole durata». Certo, l’esame delle statistiche mostra segnali di miglioramento. Dal 2009 gli arretrati sono costantemente diminuiti, ma i vantaggi in termini di tempi raggiunti nello scorso triennio si sono già fermati e non sono mai stati in grado di sanare questa cancrena processuale. Perché è il sistema che non funziona più. La macchina della Giustizia è ingolfata, con un numero di cause che aumenta sempre e personale paurosamente scarso. La crisi è così profonda da frenare gli investimenti nel nostro Paese, perché pochi imprenditori stranieri corrono il rischio di affidarsi a un diritto incerto. Un dramma che vive ogni persona costretta a entrare in un tribunale, come vittima o come imputato.
Lo sanno tutti. La questione è centrale da anni nel dibattito nazionale, con troppe polemiche e rari progetti condivisi, invocando costantemente riforme, poche delle quali attuate e nessuna finora in grado di restituire efficienza al sistema giudiziario. Resta da chiedersi perché non esista la volontà di porre una volta per tutte la centralità del problema, trovando le soluzioni e soprattutto le risorse per dare una svolta. I protagonisti del processo – magistrati e avvocati – si accusano l’un l’altro di volere soltanto tutelare i propri privilegi. Mentre il prezzo di questa inerzia lo pagano i cittadini, dal primo all’ultimo, da chi ha subìto uno scippo all’ex ministro, ex parlamentare e oggi sindaco di Benevento. Che ha atteso nove anni e otto mesi per una sentenza di primo grado e dovrà aspettare ancora di più per un eventuale appello. I tempi in questo caso sono ancora più feroci: in media 901 giorni, quasi tre anni, che molte volte finiscono persino per raddoppiare.