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 2017  settembre 12 Martedì calendario

Mio marito Luca De Filippo mi diceva: «Sarai una vedova allegrissima». Intervista a Carolina Rosi

ROMA «Luca mi diceva che sarei stata una vedova allegrissima, capace di trovare stimoli ovunque». Carolina Rosi è un’onda impetuosa di emozioni contrarie, intrecciate nello stesso istante. Solare mentre esprime un dolore profondo. Ironica nell’evocare le assenze che l’ossessionano. Luminosa con gli occhi pieni di lacrime quando ripercorre l’incredibile sequela di lutti, tanti e tutti insieme. Nel giro di pochi mesi, nel 2015, l’attrice ha perduto i due uomini della sua vita, il padre Francesco Rosi e il marito Luca De Filippo. Poche settimane dopo la scomparsa di Luca, ha partecipato ai funerali della zia molto amata, Mariuccia Mandelli (in arte Krizia). E solo cinque anni prima era mancata la mamma Giancarla, addormentata tra le fiamme d’una sigaretta accesa. Ma nella casa dei Parioli dove Carolina ha vissuto con Luca non c’è alcun segno di cupezza, di resa al dolore. «Ora sto organizzando il trasloco nella casa dei miei, in via Gregoriana, sopra piazza di Spagna. Luca ci teneva tanto: voleva che tornassi nella casa dove ero cresciuta, protetta dai ricordi. Saremmo dovuti andarci a vivere insieme». La interrompe un’amabile signora canuta, 87 anni ben portati. «È Maria, la tata che mi ha allevato. Dopo la morte di mio padre, s’è trasferita da noi. E Luca per non ferirla ha rinunciato a indossare il suo chimono di cotone».
Ma per quale ragione?
«Anche Franco a casa ne indossava sempre uno: erano i regali di zia Mariuccia. Una mattina vidi Luca che faceva colazione in jeans e maglietta: Luchino, ma il chimono? E lui, guardando Maria: “Le ricorderei troppo tuo padre”».
Una sensibilità non comune.
«Aveva avuto un’infanzia molto triste, segnata da solitudine. Una delle pochissime volte che l’ho visto piangere è quando mi ha raccontato della sorellina morta tra le sue braccia. Aveva 12 anni. Poco dopo sarebbe mancata la mamma e fu Luca ad assisterla nella malattia, completamente solo. Eduardo era sempre in tournée».
Com’era il suo rapporto con il padre?
«Complicato, nell’amore totale. Da figlio di padre anziano, Luca è stato per Eduardo il bastone della vecchiaia. Oltre alla responsabilità di averne imparato il mestiere e di tramandarlo».
Se ne sentiva schiacciato?
«No. Luca era un uomo molto sicuro di sé, senza complessi né gelosie. Semmai s’era stufato di essere “il figlio di” perfino dopo i sessant’anni… Anche se poi era orgogliosissimo di Eduardo, e faceva di tutto per onorane la memoria».
La Capria ha scritto che la sua è stata una lunga lotta per la libertà di essere se stesso. Una battaglia vinta.
«Vero. Non so se la sua carriera sarebbe stata diversa se avesse potuto interpretare altri autori, cosa che avrebbe voluto. Poi era il primo che si entusiasmava davanti a un testo del padre: vi trovava una profondità che faticava a trovare altrove. Dal canto suo Eduardo era molto possessivo. Arrivò ad impedirgli di lavorare con Strehler».
Non gli diceva mai bravo.
«Ma anche Luca non l’ha mai detto ai suoi attori. Una volta gliel’ho rimproverato. “Non mi dici mai quando va bene”. “Ma se non dico niente vuol dire che va bene”».
Due caratteri opposti, i vostri.
«Sì, provenivamo da famiglie diverse. Io sono cresciuta nel fragore di discussioni infiammate, lui nei silenzi di Eduardo. I nostri primi litigi furono tremendi: si chiudeva in quattro giorni di mutismo. E io ci stavo male».
Com’è cominciata?
«Nel 1993 ero assistente di Lina Wertmüller nella commedia L’esibizionista. Ho conosciuto Luca durante le prove e non mi stava simpatico».
Perché?
«Non è stata passione a prima vista. Poi Lina esigeva determinate cose e lui non ne teneva conto. Finché un giorno ci fu una lite mostruosa, che si concluse in modo tranchant: “E quindi tu stai zitta. E la Wertmüller pure”».
Partenza affannata.
«Poi però il destino ci ha messo del suo: cadde in scena un’attrice e io mi ritrovai in tournée per l’intero anno. All’inizio non fu vero amore, direi più infatuazione».
Ti corteggiava?
«Non c’era sera in cui non s’inventasse sulla scena qualcosa per farmi ridere a crepapelle, poi me lo ritrovavo dietro le quinte steso per terra con una rosa in bocca. Luca era un uomo molto sensuale, pieno di humour. Ci piaceva lo stesso modo di ridere, bere, mangiare. E pensare. Io camminavo a cinque metri da terra. Però poi lui si ritirava in se stesso, attento a non concedersi troppo».
«Al principio fu una storia tormentata, ci lasciavamo per poi riprenderci. Luca aveva una compagna con due bambini piccoli. E s’era già separato da una prima moglie, da cui aveva avuto un figlio. Sensi di colpa mostruosi».
E lei, Carolina?
«Avevo 28 anni, diciassette meno di lui. E non mi rendevo conto. Non avevo idea dei bagagli che mi sarei portata dietro. Io ho vissuto tutta una vita in cui veniva prima – giustamente – tutto il resto, soprattutto l’equilibrio di chi a causa tua subisce delle privazioni. Oggi siamo una splendida famiglia allargata. E la morte di Luca ci ha unito ancora di più».
Lei ha rinunciato ad avere figli.
«Luca non ha mai insistito. E quando poi lo volevamo entrambi, era troppo tardi. Poco prima di andarsene mi ha chiesto scusa, toccandomi nel profondo. Ma il mio rapporto con i suoi figli è molto bello: li considero come miei».
Quando avete capito che non potevate vivere distanti?«Restammo sei mesi separati e Luca andò al manicomio. Perse quindici chili. Tra noi c’era anche una forte simbiosi nel lavoro: era magico incontrarsi nel suo mondo più intimo. Una volta tornata dalla Russia non ci siamo più lasciati».
E a suo padre quando lo disse?
«Figurarsi, aveva capito tutto sin da principio. Una sera a Taormina mi prese da parte: “Ma voi siete pazzi l’uno dell’altra…”. “Papà che dici?”. Nessuno se n’era accorto, lui sì».
Era preoccupato?
«Non contrastò mai la storia, trattandosi di Luca. Però mi metteva in guardia: attenta, ci sono vent’anni di differenza, due mogli, tre figli… Poi il rapporto tra loro sarebbe stato bellissimo».
Hanno lavorato anche insieme: Rosi regista e De Filippo interprete.
«Ebbi io l’idea. Luca riconobbe in Franco un maestro, ristabilendo il rapporto che aveva con Eduardo. E alla fine di questa esperienza mio padre era felice. Un giorno me lo disse: io so che ti lascio nelle mani d’una persona che ti ama come ti ho amato io, che ti proteggerà e ti starà vicino. Se ci siamo sposati nel 2013 è anche per far contento Franco. Chi poteva immaginare che sarebbe durato così poco».
La malattia di Luca è stata fulminante.
«Tutto s’è svolto così rapidamente che non c’è stato il tempo di parlarne tra noi. Lui era ossessionato da un solo pensiero: non perdere mezza recita di Non ti pago, in scena al Piccolo. Ricoverato alla Mater Dei, mi spedì a Milano a recitare. Una cosa che non riuscirò mai a dimenticare: quando ci siamo salutati, gli è crollato il dolore sul volto, le labbra che tremavano, il pianto in gola congelato. Un’angoscia profonda che però non voleva trasmettermi. Io andavo in scena con il cellulare in tasca».
Oggi cosa le manca di più?
«Mi mancano le carezze, la dolcezza non legata a un trasporto erotico ma come tenerezza, bastava un suo sguardo». La voce si fa incerta. «Forse hanno ragione le mie amiche: rifuggo il dolore e mi sovraccarico di cose per non crogiolarmi».
Cosa le dà forza?
«È stato Luca a insegnarmi ad accettare la morte delle persone a cui si vuole bene. “Benvenuta tra gli orfani”, mi disse quando ho perduto i miei genitori. E poi mi aiuta il teatro. Da quando Luca non c’è più, è come se fossi invecchiata di vent’anni. Ho cambiato il modo di recitare, perfino la voce, come se mi fosse esploso dentro tutto quello che Luca mi ha dato. Sul palcoscenico mi sento bene».