La Stampa, 20 agosto 2017
Le Universiadi della discordia. Taipei riscopre di essere cinese
C’è un problema di bandiere alle Universiadi. Se ne vedono decine e nessuna è al posto giusto. Quelle tra il pubblico sono di Taiwan: rosse, con il sole in campo blu, sventolate con orgoglio. Quella che si alza nella cerimonia di apertura è di Taipei-Cina ed esiste solo per lo sport. Quelle che girano per lo stadio dovrebbero avere dietro una squadra, ma si muovono solitarie e quelle spiegazzate, tirate fuori dalle tasche e appese agli zaini dei ragazzi delle nazionali dovrebbero seguire un protocollo invece volteggiano in un party improvvisato a cui partecipa anche l’Italia di Gregorio Paltrinieri.
L’orgoglio di Taiwan
Taipei inaugura i Giochi universitari ed è pronta a raccontare fiera la storia e i simboli di Taiwan che per la prima volta ospita il mondo in un evento così importante solo che è un incidente diplomatico dopo l’altro. Colpa delle relazioni con la Cina, di un’indipendenza messa in pratica senza essere stata mai dichiarata e di un pubblico ormai stanco della sottomissione. Fosse anche solo quella al cerimoniale.
È tutto giusto però nulla ha un senso e quando nel cuore della festa lo speaker annuncia l’inno e si alza la bandiera, sale quella inventata per le competizioni ufficiali sulle note studiate per lo stesso motivo. Un trucco del Cio che nel 1981, per consentire a Taiwan di avere una squadra, ha legato Taipei alla Cina nel nome e nello stemma. Bianco, con i cinque cerchi, un richiamo evidente ai loghi neutrali, un vessillo gelido che nessuno riconosce. E infatti il pubblico si agita e fuori, in strada, il malcontento si unisce a una protesta sindacale. Si forma un ingorgo, gli atleti vengono fermati, per sicurezza. Qualcuno parla di pericoli anche se non c’è violenza, solo disapprovazione collettiva. I manifestanti contro le riforme del governo e gli insofferenti alla Cina diventano una moltitudine che blocca le uscite con gli striscioni. La cerimonia ormai è partita e per evitare di mandare il boicottaggio in diretta tv si procede, ma senza atleti. Ogni nazione viene presentata con la bandiera che gira portata da un volontario. Così quella della Cina, che non ha una nazionale, esce insieme alle altre, senza differenze. Quando la polizia gestisce la calca, le delegazioni compaiono tutte insieme, senza annunci e senza rischi. Seguono discorsi, concerti e l’amarezza e il fastidio restano nell’aria.
Il cantante poster
Questa Universiade vive di emozioni, di divieti e di correzioni. Fin dalla guida che descrive «Taipei-Cina», quanti abitanti e bellezze abbia, per poi diventare «Taiwan» in una seconda edizione, circolata in poche copie per placare gli animi. La cerimonia, pagata 11 milioni di dollari per pubblicizzare la cultura di Taiwan, deve sottostare ai colori approvati eppure chiude con Wang Leehom, attore e cantante, una delle facce più famose del Paese. Ha genitori americani che hanno lasciato Taiwan in nome della libertà ed è un poster scelto per aggirare i doveri.
La Cina resta lontana, controlla che lo spirito indipendente non si noti troppo e rinuncia al confronto. Manda singoli partecipanti, senza squadra: la scusa sono i Giochi Nazionali, momento di partecipazione obbligata per ogni federazione sportiva, e provvidenziale coincidenza. L’ultima volta che hanno giocato a Taipei è finita male. Hockey giovanile con rissa dopo un 4-0 per gli ospiti. Meglio evitare sfide anche se quella sulle bandiere continua.