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 2017  agosto 20 Domenica calendario

Rambla, il viale della libertà che vincerà sull’apocalisse

Il terrorismo ha sempre affascinato Albert Camus che, oltre a scrivere un’opera teatrale su questo tema, dedicò un buon numero di pagine del suo saggio sull’assurdo, Il mito di Sisifo, alla riflessione su questa insensata abitudine degli esseri umani di credere che assassinando gli avversari politici o religiosi si risolvano i problemi. La verità è che, salvo in casi eccezionali in cui l’eliminazione di un satrapo ha attenuato o messo fine a un regime dispotico – si contano sulle dita di una mano – questi crimini generalmente peggiorano le cose che vogliono migliorare, moltiplicando le repressioni, le persecuzioni e gli abusi. Ma è vero che, in alcuni rarissimi casi, come quello dei narodniki russi citati da Camus, che pagavano con la vita la morte di chi uccidevano per “la causa”, c’era, in alcuni dei terroristi che si sacrificavano attentando contro un boia o uno sfruttatore, una certa grandezza morale.Non è certo il caso di coloro che, come è appena successo a Cambrils e nelle Ramblas di Barcellona, investono al volante di un furgone dei passanti inermi bambini, anziani, mendicanti, giovani, turisti, gente del quartiere – cercando di travolgere, ferire e mutilare il maggior numero di persone. Che cosa vogliono ottenere, dimostrare, con simili operazioni di pura ferocia, di inaudita crudeltà, come far esplodere una bomba in mezzo a un concerto, in un caffè o in una sala da ballo? Le vittime sono di solito, nella maggior parte dei casi, persone comuni, molte delle quali con difficoltà economiche, problemi familiari, tragedie, o giovani disoccupati, angosciati da un futuro incerto in questo mondo in cui ottenere un posto di lavoro è diventato un privilegio. Si tratta di mostrare il disprezzo che si merita una cultura che, dal loro punto di vista, è moralmente degradata perché è oscena, sensuale e corrompe le donne concedendo loro gli stessi diritti degli uomini? Ma questo non ha senso, perché la verità è che questo marcio Occidente attira come il miele le mosche milioni di musulmani disposti a morire annegati pur di entrare in questo presunto inferno. Non è molto convincente neppure l’idea che i terroristi dello Stato islamico o di Al Qaeda siano uomini disperati per l’emarginazione e la discriminazione che subiscono nelle città europee. La verità è che diversi di questi terroristi sono nati in queste città e lì hanno ricevuto la loro educazione, e si sono più o meno integrati nelle società in cui i loro genitori o i loro nonni hanno scelto di vivere. La loro frustrazione non può essere peggiore di quella dei milioni di uomini e donne che vivono ancora in condizioni di povertà (alcuni in miseria) senza per questo dedicarsi a sventrare il prossimo. La spiegazione, pura e semplice, è nel fanatismo, questa forma di cecità ideologica e di depravazione morale che ha fatto versare tanto sangue e portato tanta ingiustizia nel corso della storia. È vero che nessuna religione né ideologia estremista è sfuggita a questa forma estrema di accecamento che porta certe persone a credere di avere il diritto di uccidere i propri simili per imporre le loro usanze, credenze e convinzioni. Il terrorismo islamista è oggi il peggior nemico della civiltà. È dietro ai peggiori crimini degli ultimi anni in Europa, quelli commessi alla cieca, senza obiettivi specifici, a casaccio, in cui si tratta di ferire e uccidere non delle persone precise ma il maggior numero di individui anonimi, perché, per quella obnubilata e perversa mentalità, tutti quelli che non sono dei miei – di quella piccola tribù nella quale mi sento sicuro e solidale – sono colpevoli e devono essere annientati. Non vinceranno mai la guerra che hanno dichiarato, ovviamente. La stessa cecità mentale che rivelano nelle loro azioni li condanna a essere una minoranza che poco a poco – come tutte le forme di terrorismo della storia – sarà sconfitta dalla civiltà che vogliono distruggere. Ma non c’è dubbio che possono fare ancora molti danni e che continueranno a morire degli innocenti in tutta Europa come i quattordici morti (e i centoventi feriti) della Rambla di Barcellona e a diffondere l’orrore e la disperazione in innumerevoli famiglie. Forse il più grande pericolo di questi crimini mostruosi è che ciò che di meglio ha l’Occidente – la sua democrazia, la sua libertà, la sua legalità, la parità di diritti tra uomini e donne, il suo rispetto per le minoranze religiose, politiche e sessuali – si trovi improvvisamente impoverito nella lotta contro questo nemico sinuoso e ignobile, che si nasconde vilmente, che si è incistato nella società e, ovviamente, alimenta i pregiudizi sociali, religiosi e razziali di tutti, e porta i governi democratici, spinti dalla paura e dalla rabbia che li premono, a fare concessioni sempre più ampie nell’ambito dei diritti umani alla ricerca dell’efficacia. È accaduto in America Latina; la febbre rivoluzionaria degli anni sessanta e settanta e rese più forti (e qualche volta creò) le dittature militari e, invece di portare il paradiso in terra, diede alla luce il comandante Chavez e il socialismo del XXI secolo nell’agonizzante Venezuela dei nostri giorni. Per me, le Ramblas di Barcellona sono un luogo mitico. Nei cinque anni in cui vissi in quell’amata città, due o tre volte alla settimana andavamo a passeggiare sulle Ramblas, a comprare Le Monde e libri proibiti nei loro chioschi aperti fino a mezzanotte, e, per esempio, i fratelli Goytisolo conoscevano meglio di chiunque gli scabrosi segreti del Barrio Chino, e Jaime Gil de Biedma, dopo aver cenato all’Amaya, riusciva sempre a svignarsela scomparendo in uno di quei vicoli bui. Ma forse il maggiore esperto al mondo delle Ramblas di Barcellona era un madrileno che si recava in questa città con una puntualità astrale: Juan García Hortelano, una delle persone più buone che io abbia conosciuto. Una sera mi portò a vedere, in una vetrina che si illuminava solo al crepuscolo, una truculenta collezione di preservativi con creste di gallo, tocchi accademici e tiare pontificie. Il più pittoresco di tutti era Carlos Barral, editore, poeta e stilista, che, facendo svolazzare il suo mantello nero, con il suo bastone medievale e la sua eterna sigaretta tra le labbra, recitava gridando, dopo qualche gin, il poeta Bocángel. Erano gli anni degli ultimi rantoli della dittatura franchista. Barcellona cominciò a liberarsi dalla censura e dal regime prima del resto della Spagna. Questa era la sensazione che avevamo passeggiando per le Ramblas, che quella era già Europa, perché lì regnava la libertà di parola, e anche di scrivere, tanto che tutti gli amici che erano lì agivano, parlavano e scrivevano come se la Spagna fosse già un Paese libero e aperto, in cui tutte le lingue e le culture erano rappresentate nella variegata fauna che affollava quella passeggiata lungo la quale, mentre si scendeva, si sentiva l’odore (e qualche volta perfino il rumore) del mare. Lì sognavamo: la liberazione era imminente e la cultura sarebbe stata la grande protagonista della nuova Spagna che già si affacciava a Barcellona. È proprio questo simbolo che i terroristi islamisti volevano distruggere versando il sangue delle decine di innocenti che quel furgone apocalittico – la nuova moda – ha falciato sulle Ramblas? Quell’angolo di modernità e di libertà, di convivenza fraterna di tutte le razze, le lingue, le credenze e i costumi, quello spazio dove nessuno è straniero perché lo sono tutti e dove i chioschi, le caffetterie, i negozi, i mercati ed antri vari hanno le merci e i servizi per tutti i gusti del mondo? Naturalmente non ci riusciranno. La strage degli innocenti sarà una potatura e le vecchie Ramblas continueranno ad attirare come una calamita la stessa variopinta umanità, come una volta e come oggi, quando il pandemonio terrorista sarà solo un vago ricordo dei vecchi e le nuove generazioni si chiederanno di che parlano, che cosa fu e come accadde tutto questo. (Traduzione di Luis E. Moriones)