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 2017  agosto 20 Domenica calendario

La profezia di Sergei Bubka: «L’atletica sopravviverà anche al fenomeno Bolt». Intervista

La tazza di caffè in mano, l’inconfondibile mascella squadrata, la tuta con cui è appena uscito dalla palestra dell’albergo. Lo zar di tutte le aste, Sergei Bubka, 53 anni, vicepresidente di Lord Coe alla Iaaf, prova a leggere nella palla di cristallo alla fine di un Mondiale fantastico (quasi per tutti, tranne per l’Italia). Bubka, che atletica sarà senza Bolt?
«Sopravviveremo...».
Dipendesse da lei, cosa farebbe fare al Lampo?
«Dipende da lui, ma va assolutamente tenuto nell’ambiente. Bolt è un eroe moderno, ha una capacità unica di coinvolgere i giovani: ciò che dice viene condiviso e seguito. Potrebbe entrare nelle commissioni della Iaaf, può andare in giro a promuovere l’atletica, può seguire dei progetti o girare nelle scuole per motivare i ragazzi. Bolt è versatile: si presta a mille ruoli diversi. Per prima cosa, però, gli chiederei: tu cosa vuoi fare, Usain?».
A Londra abbiamo scoperto che sa perdere con classe.
«Mi è piaciuto molto come si è comportato con Gatlin».
Dietro Bolt c’è Glen Mills, un binomio indissolubile.
«I grandi campioni non esisterebbero senza i grandi allenatori. Io avevo Vitaly Petrov. Noi siamo le star ma, dietro le quinte, c’è chi ci ha costruito. Mills potrebbe trasmettere le sue conoscenze alla nuova generazione di coach: condividere l’esperienza è un grande gesto di generosità».
La pensione è uno step delicato. Lei come lo gestì?
«Per me non fu difficile. Pianificai tutto. Dopo Sydney avevo deciso che, qualsiasi fosse il risultato, avrei smesso. Ero già membro Cio in quota atleti e membro della commissione atleti Iaaf. Mi ero portato avanti con il lavoro. Mi è sempre piaciuto programmare gli allenamenti e le gare nel dettaglio: usai lo stesso approccio anche con il dopo carriera».
In caduta libera con il paracadute, quindi.
«Dopo Sydney 2000 feci una tournée di addio. La mia ultima gara fu a casa, Donetsk, in Ucraina, nel febbraio 2001. Quel giorno, lo ammetto, fu dura. Mi organizzarono una festa incredibile, alla fine della quale mi ritrovai seduto al centro della scena, illuminato dalle luci, circondato da bambini nello stadio stracolmo. Riposi l’asta nella fodera, mi tolsi le spikes e la canottiera. Era finita. Piangevano tutti. Tranne me».
Dia un consiglio a Bolt.
«Avevo 37 anni, di cui trenta passati a fare atletica. Ero preparato a smettere, fisicamente e psicologicamente. Non mi sentii triste. Non feci nulla di folle o clamoroso, il primo giorno in pensione. Mi misi subito a lavorare per il comitato olimpico ucraino. Spero per Bolt che abbia programmato un futuro, che ne abbia perlomeno gettato le basi. L’importante è essere organizzati, così il passaggio è più morbido».
Secondo lei Van Niekerk è il nuovo Bolt?
«Wayde ha un carattere molto diverso da Usain. Ma non c’è solo Van Niekerk tra le star del futuro. Ci sono Kendricks e Lavillenie nell’asta, Coleman nello sprint... Però date all’atletica un po’ di tempo: siamo in un periodo di transizione. E concedete agli atleti il tempo di rafforzarsi, imparare a parlare con il pubblico, gli sponsor, i media. Bolt non è nato Bolt. È diventato Bolt. Ecco, mandare i nostri giovani campioni a scuola dal Lampo sarebbe il corso di aggiornamento più efficace. Oppure far studiare loro i suoi video: come ci si comporta prima e dopo le gare. Oggi è importante essere molto social, come Bolt. Certe dinamiche vanno apprese, studiate».
Che Mondiale è stato?
«Bellissimo, con un pubblico competente e un’atmosfera unica. Dal calcio all’atletica, gli inglesi conoscono lo sport. Ho adorato Mo Farah nei 10.000, Van Niekerk nei 400...».
Deludenti, i 400, però.
«Voi vi aspettate sempre i record, le prestazioni eccezionali, dimenticando che gli atleti sono esseri umani. Succedeva anche a me: passavo il muro dei 6 metri, il meeting dopo saltavo 5.90 e non era mai abbastanza...».
Sarà stato un pubblico competente, però i fischi a Gatlin si potevano evitare.
«Sono d’accordo. Abbiamo delle regole? Seguiamole. Justin ha sbagliato due volte, è stato squalificato, ha pagato, è tornato. Aveva il diritto di essere al Mondiale e di vincere l’oro nei 100. Da questo punto di vista Gatlin è inattaccabile. I fischi non mi sono piaciuti: io non l’avrei fatto. Per fortuna alla cerimonia di premiazione sono stati meno».
La sua amata asta non ha più un dominatore.
«Lavillenie non può accontentarsi del bronzo, ma Kendricks ha dominato la stagione. Mi aspettavo di più dallo svedese Armand Duplantis, che però ha appena 17 anni. Si segni il cognome: è di sicuro una stella del futuro».
E i Nitro Games, gli uomini contro le donne, le gare miste, sono il futuro dello sport?
«Perché no? La gente si diverte e sono certo che correrebbe a vedere l’asta nelle piazze, lo sprint nelle strade, i lanci in spiaggia. L’Italia da questo punto di vista sarebbe il palcoscenico perfetto. La Iaaf dovrebbe essere meno conservativa e più aperta ai cambiamenti, più vicina ai giovani. Quale migliore lezione, e miglior promozione, potrebbe esserci più del portare una scolaresca a vedere gli atleti in azione, nella loro città?».
E il suo, di futuro, Sergei?
«Desidero solo rimanere il più a lungo possibile immerso nello sport. In tuta, come mi vede oggi. Senza, a quasi 54 anni, non potrei più vivere».