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 2017  agosto 20 Domenica calendario

Le crisi infinite. Sono cinquantacinque le imprese italiane in amministrazione straordinaria da almeno dieci anni

Dieci anni fa l’iPhone muoveva i primi passi sul mercato, dopo il lancio pubblico da parte di Steve Jobs. Facebook contava cento milioni di utilizzatori, venti volte meno dei due miliardi raggiunti nei mesi scorsi. L’Internet delle cose – macchine che si connettono ad altre macchine in rete – stava per celebrare il suo atto di nascita, secondo la definizione che ne avrebbe dato il colosso digitale Cisco.
In dieci anni il modo di produrre, comunicare o informarsi nel mondo è diventato irriconoscibile. Eppure c’è qualcosa che in questo decennio si è perpetuato essenzialmente uguale a se stesso: in Italia sono ancora coinvolte in interminabili procedure di amministrazione straordinaria da (almeno) dieci anni ben cinquantacinque grandi imprese. Realtà produttive entrate in insolvenza e affidate a commissari straordinari nominati dal governo, quando il mondo viveva in un’era tecnologica precedente, si stanno ancora trascinando per i tribunali del Paese. Alcune fra queste 55 lo stanno facendo da molto più di dieci anni e si avvicinano alla maggiore età, con casi partiti addirittura nel duemila (Bongioanni o Manifattura Tiberghien) o nel 2001 (Flexider o K&M).
Dentro queste aziende, i dinosauri dell’insolvenza e della liquidazione sotto l’ala del ministero dello Sviluppo, lavorano attualmente oltre 33 mila addetti. Ed è difficile pensare che tanta lentezza nel chiarire la posizione debitoria di realtà produttive così vaste giovi all’investimento, all’innovazione o alla fiducia che serve per rigenerare un tessuto economico. A titolo di confronto, forse sleale ma impietoso: negli Stati Uniti un gruppo complesso come General Motors ha presentato richiesta di protezione dai creditori («Chapter 11») a giugno 2009 e tre anni e mezzo dopo ne era già uscito; una compagnia aerea piena di oneri come Delta si è presentata in un tribunale il 15 settembre 2005 e venti mesi dopo aveva chiuso tutti gli strascichi legali con i creditori del passato. A Roma invece è ancora aperta la procedura liquidatoria del vecchio gruppo Alitalia, partita nel 2008, quando si è aggiunta da poco quella dell’azienda che avrebbe dovuto nascere dalle ceneri della precedente. Voltare pagina non è mai stata una specialità nazionale.
I dati del ministero dello Sviluppo economico sulle imprese in amministrazione straordinaria, 145 in tutto, sono a loro modo una contro-storia d’Italia. In questa classe di imprese lavorano oggi oltre 65 mila addetti, un vero e proprio gruppo sociale italiano.
Di per sé naturalmente non c’è niente di sbagliato nelle amministrazioni straordinarie e niente di più falso del sostenere che negli anni non abbiano prodotto risultati. Anche quando non si sono ancora chiuse: rami d’azienda sono stati venduti, creditori sono stati soddisfatti, patrimoni produttivi e posti di lavoro sono stati preservati. Del resto la figura giuridica dell’amministrazione straordinaria debutta nel 1979, poi viene rafforzata con il governo di Romano Prodi nel 1999 (cosiddetta legge Prodi bis) e precisata per le grandissime imprese nel 2004 sotto Silvio Berlusconi (legge Marzano) proprio a questo scopo: mantenere la capacità di aziende importanti finite in insolvenza di operare, quando sono ritenute capaci di ristrutturarsi.
Nella lista, ovviamente, c’è un catalogo della realtà industriale e produttiva del Paese, da casi celebri come Parmalat o Ilva a una curiosità (con annessa inchiesta penale per un crac da 500 milioni) come la Congregazione ancelle della Divina provvidenza di Bisceglie, che coinvolge un ordine di suore attive in una serie di case di cura. Alcune delle aziende decane delle amministrazioni straordinarie nel frattempo hanno trovato nuova vita, ma il problema resta: sanno quando entrano nei tribunali, ma non sanno quando ne usciranno.
Di recente una revisione guidata da Carlo Calenda, l’attuale ministro dello Sviluppo, ha cercato di inserire o rafforzare gli incentivi per i commissari straordinari a fare presto: per esempio, il loro compenso sale del 18% se la vendita di beni mobili, immobili e altri attivi avviene entro un anno dall’approvazione del programma. Calenda ha anche definito criteri di trasparenza, pari trattamento e limiti ai compensi per queste figure di nomina governativa scelte dopo una pre-selezione; questi professionisti stanno infatti diventando un altro vero e proprio ceto italiano frutto della grande recessione: ai bandi per un posto da commissario di certe imprese insolventi, si presentano a volte anche in duecento.
Resta che i tempi della giustizia civile e del diritto fallimentare sono semplicemente incompatibili con quelli di un’economia moderna in un’era di trasformazione tecnologica. L’Italia non può più permettersi l’incertezza di un lazzaretto industriale senza fine.