La Stampa, 19 agosto 2017
Intervista a Alberto Barbera: «Il cinema non morirà mai e a Venezia porto la realtà virtuale»
È la storia d’amore più precoce, più intensa e più duratura della sua vita. Iniziata a 5 anni, e ancora adesso piena di passione: «Il cinema continua a essere l’esperienza più entusiasmante tra le esperienze estetiche. È un errore pensare che sia morto. Come tutte le arti è cambiato. Ma sopravviverà, anche a cose che ne minacciano l’esistenza». Il 30 agosto si alza il sipario sulla 74a Mostra d’arte cinematografica di Venezia e Alberto Barbera, il direttore più longevo della sua storia, attualmente al nono mandato, parla di film e di vita e di quella scintilla, scoccata nel cinema parrocchiale di Occhieppo Inferiore, provincia di Biella, dove lo zio, custode e cassiere, gli permetteva di guardare sprazzi di fotogrammi: «La prima emozione forte l’ho vissuta vedendo un film di cappa e spada. Mi spaventai, ma da quel momento non ho più smesso di andare al cinema. Prima con mia nonna e mio zio. Poi con gli amici e dopo anche da solo: correvo a Biella per le prime visioni».
Il film che l’ha più colpita, da ragazzo?
«I 400 colpi di Truffaut».
Quando ha capito che l’attrazione per il grande schermo poteva essere il suo mestiere?
«Da bambino volevo fare l’attore, da adolescente il regista, iscrivendomi al Centro Sperimentale. Mio padre, operaio tessile, minimizzò: “Prima finisci gli studi, poi fai quello che vuoi”. In famiglia il vero amore per il cinema ce l’aveva mia madre, figlia di contadini. A 16 anni, con altri coetanei, abbiamo organizzato un cineforum con film d’autore e ospiti. Per un po’ mi sono rassegnato e ho fatto l’università a Torino, cercando modi per poter continuare a interessarmi di cinema».
E li ha trovati. Prima lavorando per l’associazione dei cinema d’essai «Aiace», poi scrivendo critiche per laGazzetta del Popolo, poi ancora partecipando alla nascita del Festival del Cinema Giovani diretto da Gianni Rondolino.
«Dall’89 il cinema è diventato un lavoro vero. Cominciammo a viaggiare per il mondo in cerca di film, come esploratori o pellegrini. Ricordo la prima volta in Kazakistan, ero con Marco Müller, ci hanno accolti come se fossimo due dignitari. La Torino degli Anni 80 era molto viva, c’era un’amministrazione attiva, consapevole del fatto che il destino industriale della città non avrebbe avuto sviluppo felice. Si cominciò a investire sullo sport, sul teatro, sulla creatività, si lanciarono allora i semi che avrebbero poi reso Torino un polo cinematografico».
Quando ha messo piede per la prima volta alla Mostra di Venezia?
«Stavo facendo il militare ad Aosta. Alla Mostra c’era la prima mondiale di Novecento di Bertolucci, fu chiesto a me e ad altri di organizzare un seminario di 2 giorni sul film. Presi una licenza di 10 giorni e dalla caserma di Aosta mi ritrovai al Lido, ospitato al “Des Bains”, un’esperienza spiazzante».
Molto tempo dopo ci è tornato da direttore. Il prima mandato fu interrotto bruscamente.
«Sì, l’episodio risale al 2001, durante il governo Berlusconi: il ministro della Cultura era Urbani, non riconfermò Baratta alla presidenza della Biennale, il cda decadde e, con esso, i direttori delle varie sezioni. Io mi ritrovai a 42 anni senza lavoro, con una figlia appena nata. Ero disperato. Fu allora che mi arrivò la proposta di Sergio Chiamparino, un anno e mezzo da consulente del Museo del Cinema, poi sono diventato direttore, fino all’anno scorso».
Quando è ritornato alla guida della Mostra, qualcuno ha detto che avrebbe dovuto lasciare quella del Museo. Non l’ha fatto. Perché?
«Ci sono state polemiche, è vero, ma, dopo il primo anno, si sono fermate. Il direttore del Festival di Cannes Thierry Fremaux ha sempre avuto due cariche, come è capitato a me, e ha ampiamente dimostrato che possono essere compatibili».
L’innovazione più importante della Mostra da lei firmata?
«Con il presidente Baratta abbiamo inventato “Biennale College”, un progetto di produzione dedicato ai giovani talenti che sembrava una pazzia e invece si è rivelato un successo. Sedici film prodotti in 5 anni, con un’ottima accoglienza di critica e pubblico».
E la scommessa di quest’anno?
«La sezione dedicata alle opere in realtà virtuale, mai stata fatto prima da nessun festival. Ci ha stupito per la qualità delle proposte e ci imposto delle scelte: c’è un’isola, Lazzaretto Vecchio, dedicata esclusivamente a queste proiezioni. Il pubblico dovrà iscriversi e indossare le apparecchiature necessarie».
Il suo ricordo più emozionante da quando dirige la Mostra?
«La prima di Eyes Wide Shut. Stanley Kubrick era morto poco prima di finirlo, c’erano gli interpreti, Tom Cruise e Nicole Kidman, molto commossi, e c’era Bernardo Bertolucci che pronunciò l’elogio dell’autore e anche il suo personale “mea culpa” perché aveva sempre dichiarato che Kubrick era un cineasta freddo e cerebrale».
La sua più grande arrabbiatura?
«Quando ho perso 12 anni schiavo di Steve McQueen perché la Lionsgate ha deciso, all’ultimo, di lanciarlo al Festival di Toronto invece che a Venezia».
La star più capricciosa?
«Quasi tutte le star sono gentili, disponibili, cordiali. Quando arrivano qui si danno con generosità. Il problema sta in chi le gestisce: le leggende sulle richieste assurde degli attori vengono da loro, persone che provano a giustificare il proprio ruolo o forse a proteggere la privacy dei loro assistiti, tutto in nome dello star-system».
La Mostra ha dovuto fare i conti con la Festa di Roma. Ha perso punti?
«All’inizio la Festa di Roma è stata un stimolo per fare meglio. E comunque non l’ho mai avvertita come un problema, Venezia è sempre rimasta la prima scelta, nessun produttore o distributore mi ha mai detto di essere indeciso tra le due».
Nella sua classifica esistenziale, il cinema che posto ha?
«Per me è sempre venuto prima il cinema, poi le donne, e poi la politica. Adesso ho qualche dubbio sul mettere il cinema prima delle donne».