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 2017  agosto 19 Sabato calendario

Trump licenzia anche il suo ideologo

Steve Bannon era il più controverso dei consiglieri di Donald Trump. Prima delle elezioni, quand’era direttore esecutivo del sito della destra xenofoba Breitbart, fu definito «l’operatore politico più pericoloso d’America». Un anno fa Trump lo mise a capo della campagna elettorale, ed è considerato l’artefice del messaggio populista, anti-immigrazione e di protezionismo economico che lo ha portato alla vittoria. Lo show Saturday Night Live lo ha rappresentato come il diavolo, discreto e onnipresente, sulla spalla di Trump. La caduta dell’eminenza grigia della Casa Bianca avviene assai più in sordina della sua ascesa, con una nota sintetica: «Il capo dello staff John Kelly e Steve Bannon hanno convenuto di comune accordo che oggi sarebbe stato l’ultimo giorno per Steve». Bannon sostiene di essersi dimesso ma tutti dicono che è stato licenziato dopo le pressioni dello stesso Kelly, deciso a fare ordine alla Casa Bianca.
I coltelli dei suoi tanti nemici erano affilati da tempo, e contro di lui giocava pure il fatto che a Trump non è mai piaciuto che la stampa lo chiamasse «Presidente Bannon»: gli rubava la scena.
Sin dal primo giorno, si era scontrato con l’altro consigliere speciale di Trump, il genero Jared Kushner. Il suo iniziale ruolo nel consiglio di sicurezza nazionale era presto venuto meno. Era in lotta aperta con i generali: Mattis al Pentagono, McMaster al consiglio di sicurezza nazionale, ed era sospettato di mandare a Breitbart informazioni per screditare quest’ultimo. Sulla politica estera il disaccordo era totale: sulla strategia in Afghanistan, in discussione ieri, i generali vogliono più truppe e lui suggeriva di privatizzare la guerra con migliaia di contractor.
In un’insolita intervista, tre giorni fa, con la rivista progressista American Prospect, Bannon aveva criticato duramente anche Gary Cohn, ex di Goldman Sachs e consigliere economico di Trump, considerato dal mondo del business l’unica speranza per portare avanti il taglio delle tasse, la deregulation, il rilancio delle infrastrutture. «Se la fanno sotto», aveva detto dei suoi rivali, promettendo di mettere dei falchi al posto loro. La priorità per lui era «la guerra economica con la Cina».
Si diceva che fosse stato Bannon a consigliare al presidente di non condannare esplicitamente i suprematisti bianchi e l’alt-right nel discorso sulle violenze di Charlottesville, poiché fanno parte della sua base elettorale. Altri sostengono che Trump la pensa comunque allo stesso modo. Più difficile dire cosa cambierà adesso. Bannon continuerà a collaborare con Breitbart e anche con il miliardario Bob Mercer, grande finanziatore di Trump e dell’alt-right. «Guerra», minacciava ieri su twitter il sito Breitbart. Ma guerra contro chi? Contro i «globalisti» rivali di Bannon che sono rimasti alla Casa Bianca? Di certo il suo potere anche fuori resterà grande e potrà usarlo a favore o contro l’amministrazione. Da ex banchiere di Goldman Sachs a produttore di Hollywood, Bannon è diventato il filosofo della destra nazionalista. Ha sempre detto che il movimento continuerà, anche dopo Trump.
Viviana Mazza
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Lo stratega che ha osato troppo: l’ultimo errore fatale
Lo ha tenuto al suo fianco quando la stampa americana lo definiva il Rasputin della Casa Bianca. Ha stretto i denti quando Time ha messo in copertina Steve Bannon definendolo il vero presidente. Dire, quindi, che il «narcisista-in-capo» ha messo alla porta il suo ideologo perché non sopportava più la sua presenza ingombrante, perché furibondo per il libro di Joshua Green (Devil’s Bargain ) nel quale giganteggia la figura del leader culturale dell’alt-right, è non privo di fondamento, ma alla fine semplicistico.
Così come sarebbe semplicistico cavarsela con la conferma delle nostre previsioni di qualche mese fa: con un leader irruento, spregiudicato e senza scrupoli come Trump gli unici che potevano sentirsi al sicuro erano i personaggi legati a lui da rapporti inscindibili: i membri della sua famiglia.
Il narcisismo c’entra nella defenestrazione di Bannon, ma per una volta non è quello di Trump: è quello del suo ideologo. Che, benché consapevole di essere finito da tempo nel mirino di un Trump sempre più irritato per il caos alla Casa Bianca, non è riuscito a starsene per un po’ calmo sott’acqua, come pure aveva detto di voler fare.
La sua anima di attivista ribelle l’ha spinto a continuare, sotterranea, la lotta contro generali e banchieri di Trump. Il nuovo chief of staff, il generale dei marines John Kelly, ha subito messo alla porta Anthony Scaramucci, ma non è riuscito a fare altrettanto con Bannon. Che però, proprio come Saramucci, si è autodistrutto con l’autogol di un colloquio avventato con la stampa. Altro stile rispetto alle volgarità di Anthony, certo: Bannon ha concepito un piano raffinato, ma ha avuto la presunzione di pensare che un intellettuale della sinistra radicale come Robert Kuttner di American Prospect potesse dimenticare tutto quello che lo divide da lui, a partire dalle questioni razziali, e stringere un patto segreto delle due estreme contro la Cina e contro l’establishment che sostiene Trump.
Kuttner ha subito reso noto il colloquio (che Bannon non si era nemmeno preoccupato di definire «off the records»). Kelly si è trovato la testa di Bannon servita su un piatto d’argento.
Massimo Gaggi