la Repubblica, 12 agosto 2017
Sognando Del Monaco: «Senza un’energia da leoni nell’opera non sopravvivi». Intervista al tenore Vincenzo Costanzo
Il giovane e lanciatissimo tenore Vincenzo Costanzo approda al nostro incontro recando in dono un mazzo di orchidee: «Mi pare il minimo per una signora». È un guaglione gentiluomo, questo cantante dall’occhio morbido e dallo spiccato accento napoletano. Grazie alla beltà timbrica della sua voce naturalmente dolce e intensa, qualcuno ha preso già a definirlo “il nuovo Pavarotti”. «Hanno fretta di esagerare con i paragoni», si schermisce lui, che è di passaggio a Roma tra un’impresa spettacolare e l’altra. Originario di Summa Vesuviana («Tengo il vulcano nel cuore»), stasera cenerà a Napoli coccolato dalle sue zie («Donne calde come vere partenopee»), le quali in suo onore stanno preparando la pasta per la pizza, «e nessuno la fa buona come loro». Vincenzo è un tipo solido e spavaldo. Ma mentre parla certe fragilità gli s’infiltrano nella voce, che invece nel canto assume un’affascinante potenza brunita. Ha fatto da poco Pinkerton in Butterfly a Madrid ed è stato Ruggero nella Rondine di Puccini a Berlino. A fine mese sarà ancora in Butterfly alla Fenice, uno dei teatri cui è più legato. Lo attendono Bilbao per i Masnadieri, Berlino e Bologna per Bohème e molto altro. Ha un acuto temerario e una capacità toccante di esprimere emozioni. A 25 anni spicca come una genuina “grande speranza” della lirica internazionale. Costanzo, sembra che lei abbia già accumulato molti record. «Vero. Dal 26 agosto sarò per la quinta volta Pinkerton a Venezia. Nella stagione scorsa sono stato il primo tenore napoletano a cantare a San Francisco a 24 anni. Interpretavo sempre Pinkerton, mio ruolo d’elezione. L’ho già cantato in oltre cento recite nel mondo, fra l’altro diretto da Chung a Tokyo. Nel ’14 ho vinto il premio come Tenore New Generation negli International Opera Awards (l’Oscar della lirica) a Doha, in Qatar. Nessuno sotto i trent’anni prima di me lo aveva preso». Quando s’accorse d’avere una voce speciale? «A nove anni cantavo impostato come un tenore e misteriosamente non ho mai avuto la voce bianca. Da piccolo ho vinto lo Zecchino d’Oro con la canzone Guapparia (mostra sullo schermo del cellulare il filmato di una performance impressionante dove lui, bambino, canta con vocalità quasi da adulto, ndr)». Chi l’ha ispirata? A casa sua c’erano musicisti? «Per niente! La voce è un regalo del Signore. Appartengo a una famiglia di contadini e sono cresciuto in campagna. Vedevo l’opera in tv, impazzivo per i Tre Tenori e li imitavo cantando in piedi su una sedia della cucina. Adoro quel trio: Pavarotti per la perfezione della voce, Domingo per la musicalità e Carreras per il pathos». Poi ha studiato musica? «Certo. Ho avuto un ottimo maestro a Napoli, Marcello Ferraresi, e ho dato gli esami in Conservatorio da privatista. Tutto grazie a mio nonno. I miei genitori si volatilizzarono dopo essersi separati. Papà partì per Cuba e mamma si fece una nuova famiglia nel Nord Italia cancellando ciò che le rammentava l’ex marito, inclusi mio fratello e io. Ma dobbiamo parlarne?», chiede rabbuiandosi un attimo. No, non dobbiamo. Tuttavia è lui a continuare: «Ho avuto depressioni e problemi di salute. Per un periodo mi sono zittito. Non parlavo più. Però cantavo, e così non mi sentivo solo. L’opera mi ha salvato la vita. Mio fratello e io siamo rimasti con mio nonno che pur essendo un contadino è riuscito a far laureare tutti e sei i suoi figli. Ha spedito all’università anche me, che già facevo canto. Mi sono laureato in Ingegneria a Napoli con 110 e lode». Gli studi da ingegnere non hanno ostacolato la sua carriera? «No! L’hanno aiutata! Primo, perché la matematica è musica. Secondo, perché l’università mi ha insegnato a studiare. Preparavo gli esami con totale concentrazione, e così ho sviluppato una disciplina pazzesca nello studio quotidiano del canto. Il teatro è un luogo sacro, da vivere col senso del sacrificio. L’opera è divenuta per me una famiglia dove ho padri e fratelli che si chiamano Leo Nucci, Francesco Meli… Artisti e maestri straordinari». Sembra che sia stato Nucci il suo scopritore. «Sì, gli devo tanto. Vinsi il concorso Voci Verdiane di Busseto e lui mi fece entrare nel cast di una Luisa Miller. Poi ho cantato in Ballo in maschera, Macbeth, Nabucco, Simon Boccanegra, Traviata, Bohème… Però non brucio le tappe: se mi offrono parti troppo spinte per la voce rifiuto». Chi è il suo Pinkerton? «Mi viene da interpretarlo col sentimento del bambino di Butterfly, così fragile, sofferente, abbandonato… Come da piccolo lo sono stato io. Perciò risulto coinvolgente nel ruolo». Ha avuto un modello? «Mario Del Monaco è un idolo per me, come Gesù. Amo il suo canto virile. Sono devoto alla scuola tenorile antica». Crede nel divismo? «Per carità! È un vizio tramontato da decenni. Oggi bisogna impegnarsi con l’energia di un leone, e infatti gli amici mi chiamano Roccia. Sono schietto e senza maschere. Come potrei? In passato ho patito così tanto che ora posso solo adoperarmi per spandere attorno a me raggi di sole».