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 2017  agosto 12 Sabato calendario

Opzione «combattere stanotte» i piani di guerra del Pentagono. Cosa succede in caso di attacco di Pyongyang. Dai raid mirati all’evacuazione dalle basi militari americane

È un’escalation di bluff? Oppure il duo Trump-Kim avanza verso la guerra vera, come gli statisti “sonnambuli” che precipitarono l’Europa nel primo conflitto mondiale? Due autorevoli repubblicani, esperti in politica estera, divergono sull’interpretazione delle parole di Donald Trump sulle «armi già cariche e pronte a colpire». Per John McCain il presidente non dovrebbe fare minacce che non è in grado di attuare. Invece per il suo collega senatore Lindsay Graham Trump fa sul serio: la guerra è possibile. Con quali scenari? LA LINEA ROSSA Graham in seguito a colloqui a tu per tu con Trump si è «convinto al 100% che il presidente userebbe la forza per negare alla Corea del Nord la capacità di colpirci con testate nucleari». Con il suo profluvio di ultimatum, spesso via Twitter, con lo stile eccessivo che lo distingue, Trump starebbe segnalando a Pyongyang (e a Pechino) la “linea rossa” da non oltrepassare: guai se la Corea del Nord prosegue i test dimostrando di avere missili capaci di colpire gli Usa con testate nucleari. GUERRA QUANDO? A quella linea rossa i nordcoreani si avvicinano o l’hanno già varcata? In due mesi e mezzo la gittata dei loro missili è passata da 2.000 km a 3.700 km. Un colpo preventivo ha senso se l’America lo sferra prima che Pyongyang abbia sviluppato missili intercontinentali tali da poter colpire territori americani. Ma la base militare di Guam nel Pacifico forse è già alla loro portata. Dopo il test del missile Hwasong- 14 (luglio) forse anche l’Alaska e perfino la California sono raggiungibili. Resta da verificare, oltre a precisione e affidabilità dei lanci, se la Corea del Nord abbia atomiche sufficientemente miniaturizzate e in grado di resistere al rientro nell’atmosfera. GUERRA COME? Il Pentagono elabora scenari di attacchi preventivi da 20 anni: da quando era presidente Clinton. Il motto delle basi Usa in Corea del Sud è: fight tonight, combattere stanotte. I militari Usa hanno “wargames”, opzioni, simulazioni. Dovrebbero coinvolgere in prima linea gli alleati- chiave: Corea del Sud, Giappone. Che ospitano basi militari Usa e hanno interesse a difendersi da attacchi e rappresaglie di Pyongyang. L’America in proprio ha la base di Guam, la 7a Flotta, sottomarini nucleari che già incrociano al largo della penisola coreana. Le opzioni vanno dall’attacco con armi di precisione ma convenzionali, all’uso immediato dell’atomica (mai avvenuto dopo Hiroshima-Nagasaki), dall’attacco sul larga scala al colpo “chirurgico” per incapacitare solo gli impianti nucleari o i siti di lancio dei missili. Minimizzando l’uso di truppe terrestri, le più vulnerabili qualora Kim reagisca con armi di distruzione di massa. QUALE RAPPRESAGLIA Sulle contro-reazioni della Corea del Nord non è credibile la propaganda di regime che promette all’America devastazioni immani. Però il Pentagono deve prendere in considerazione piani di evacuazione di 250 mila americani a rischio, non solo militari nelle basi dell’area. I bersagli più esposti sono i civili nelle immediate vicinanze: la capitale della Corea del Sud, Seul, ha dieci milioni di abitanti ed è vicina al confine. Quand’anche Pyongyang dia prova di “moderazione”, cioè non usi subito armi nucleari, anche con missili tradizionali e l’artigleria di confine può provocare stragi. Trentamila morti nelle prime ore del conflitto, è una delle stime del Pentagono. Senza introdurre la variante di un intervento della Cina. L’ALTERNATIVA: DIPLOMAZIA A rimettere sul tavolo l’opzione diplomatica è il capo (teorico) della politica estera americana, il segretario di Stato Rex Tillerson. In apparenza contraddicendo apertamente il suo presidente. Tillerson ogni tanto viene dato per dimissionario quindi non è chiaro quanto pesi. Può darsi che fra lui e Trump ci sia una divisione dei ruoli, colomba e falco. Le minacce del presidente in questo scenario servono ad ammorbidire i nordcoreani perché accettino di sedersi al tavolo delle trattative. E ancor più i cinesi, perché finalmente esercitino pressioni efficaci sul loro alleato. Primo problema: pre-condizione è la cessazione dei test e Pyongyang non fa cenno di volerla concedere. Secondo problema: sotto Clinton e Bush i tentativi di negoziati sono falliti perché la Corea del Nord ha sempre disatteso gli impegni presi. L’OPINIONE PUBBLICA Gli americani sono stanchi di guerre dopo Afghanistan e Iraq. Trump in campagna elettorale condannò Bush per l’invasione dell’Iraq del 2003 giudicandola un disastro. È vero che Trump è sceso ai minimi storici di qualsiasi presidente (solo il 38% di consensi dopo 200 giorni di governo). Ed è accerchiato dall’inchiesta sul Russiagate. Ma lo stereotipo per cui i presidenti cercano di risolvere le crisi domestiche inventandosi delle guerre è approssimativo. Perché portino consensi, le guerre bisogna vincerle.