Il Messaggero, 12 agosto 2017
La storia di Roberto Succo, il killer bipolare e rubacuori che sconvolse l’Europa
La sera del 9 Aprile 1981 Nazario Succo, poliziotto in servizio a Venezia, ritornò nella casa di via Terraglio, dove viveva con la moglie Marisa e il diciannovenne figlio Roberto. Qualcosa deve essergli apparso strano, perché nessuno rispose al suo saluto. Ma Nazario non ebbe il tempo di capirne la ragione: fu subito aggredito e trafitto da vari colpi di accetta, che il ragazzo gli inferse con violenza inaudita. Poi l’assassino, con calma e metodo, depose il cadavere accanto a quello della madre, che aveva accoltellato qualche ora prima. Quindi prese l’automobile, e se ne andò. I due corpi furono trovati il giorno dopo nella vasca da bagno, in un lago di sangue.
L’indagine fu breve, si capì subito che il colpevole era lui. Roberto fu arrestato poco dopo, in Friuli. Nacque così un caso che superò i confini nazionali, ispirando libri, film e persino un musical. Gli ingredienti consueti dei delitti celebri, il denaro, il sesso, il potere, furono sostituiti da quelli, ancora più intriganti, di un omicida seriale giovane, bello e virtualmente imprendibile, che tenne in sospeso, per vari mesi, le polizie di mezza Europa. Non c’era mistero nei suoi crimini: l’unico mistero era quello della sua mente.
Davanti ai magistrati, l’imputato si spiegò così: «Ho ucciso mia madre perché mi opprimeva, e la mia vita in casa era diventata difficile: o lei o io dovevamo scomparire. Se avessi eliminato solo lei, mio padre sarebbe impazzito di dolore, con una moglie morta e un figlio assassino: quindi ho ammazzato anche lui. In alternativa, avrei potuto suicidarmi, ma loro avrebbero sofferto ancora di più. Non avevo altra scelta, e ora mi sento bene».
Roberto fu sottoposto all’ordinaria perizia collegiale: uno psichiatra, uno psicologo, e un medico legale. Le conclusioni furono unanimi: schizofrenia e alta pericolosità sociale. Dichiarato incapace di intendere e di volere, il ragazzo fu internato al manicomio criminale (pomposamente chiamato OPG, Ospedale Psichiatrico Giudiziario) di Reggio Emilia. Qui si comportò bene, studiò, si diplomò, tenne la contabilità degli altri detenuti, e per cinque anni fu considerato un ricoverato modello. Leggeva molto, si esprimeva con proprietà, era gentile, efficiente e benvoluto, benché si tenesse appartato, forse per timidezza, forse per diffidenza verso gli altri. I medici dell’Istituto cominciarono a formulare diagnosi incoraggianti: il ragazzo migliorava, e poteva frequentare corsi di studio esterni. Cosi gli furono concessi permessi crescenti in numero e durata. Lui usciva regolarmente, altrettanto regolarmente rientrava. Poi, il 17 Maggio 1986, dopo aver riscosso centomila lire dalla cassa, sparì.
Da qui cominciò la sua avventura europea. La sua ricostruzione fu, ed è ancora, difficile e incompleta, perché il ragazzo cambiò generalità e sembianze varie volte. Quel che è certo, è che lasciò dietro di sé una catena di omicidi, stupri, rapine e altri reati, in Francia, in Svizzera e altrove. A Tolone uccise un ispettore di polizia, che l’aveva rintracciato: si impossessò della sua pistola, che gli fu trovata addosso al momento del secondo arresto. Ma non ammazzò soltanto per sottrarsi alla cattura. Lo fece talvolta per puro piacere, talvolta per denaro, talvolta senza un’apparente ragione. I periti di Venezia avevano messo bene in chiaro che la sua schizofrenia poteva condurlo, di tanto in tanto, ad atti crudeli. Il suo rapporto di odio e amore con la madre, che lo aveva cresciuto sotto un ferreo dominio, ne aveva forse minato l’evoluzione sessuale: benché bello e corteggiato, non aveva mai avuto una fidanzata, e nemmeno relazioni occasionali. Si prese la rivincita violentando, con la minaccia delle armi, varie ragazze. Tuttavia queste teorie freudiane non erano spiegazioni soddisfacenti, anche perché la sua virilità si assestò nel modo più normale, quando si innamorò di una coetanea italiana, che naturalmente ignorava la sua identità e i suoi precedenti, e, quel che è più singolare, non trovò in lui nulla di equivoco o di pericoloso. Paradossalmente fu proprio questa recuperata normalità a perderlo. La polizia di Treviso scoprì la relazione, pedinò la ragazza, tese una trappola al fidanzatino e lo catturò con una brillante operazione rapida e indolore.
Succo fu portato al carcere locale, in attesa della risoluzione dei vari conflitti di competenza. Avendo commesso reati un po’ dappertutto, non era una questione facile. Per di più i francesi, che avevano subito le perdite maggiori, fremevano e premevano per ottenerne l’estradizione, peraltro non consentita, in quel caso, dalla legge italiana. Nel frattempo il ragazzo diede spettacolo. Durante l’ora d’aria, con un balzo da atleta scavalcò un muro e salì sul tetto della prigione, da dove cominciò a offendere le istituzioni e minacciare i presenti. Arrivò la televisione, e il gagliardo ventisettenne esibì il suo corpo apollineo in una sorta di macabro strip tease. Qualcuno della folla applaudì; altri inorridirono; magistrati e poliziotti esitarono, non sapendo che fare. Improvvisamente l’acrobata, volontariamente o per errore, piombò al suolo, sei metri sotto. Come spesso accade ai malandrini, rimase incolume. Fu di nuovo esaminato da altri psichiatri che confermarono la diagnosi originaria: schizofrenia e alta pericolosità sociale. Quindi niente prigione, ma di nuovo il manicomio criminale. I francesi si infuriarono, mossero la politica, la stampa, e la diplomazia. Ma Roberto Succo risolse d’un tratto tutti i problemi: la sera del 22 Maggio 1988, dopo aver metodicamente accumulato varie bombolette di gas del fornelletto della cella, infilò la testa in un sacco di plastica, aprì le valvole, e raggiunse, come aveva scritto il giorno prima, finalmente la libertà.
LUMI E BIGLIETTINIFu sepolto lontano dai suoi genitori, e sulla sua tomba, per lungo tempo, furono depositati lumini, fiori, e bigliettini. E non solo per pietà: la sua storia e la sua esibizione dai tetti del carcere, avevano eccitato la fantasia di varie adolescenti, che lasciarono incredibili dichiarazioni di amore. Su di lui furono anche scritte canzoni e storie romanzate. Alla fine, per fortuna un’autorevole giornalista francese, Pascale Froment, ricostruì la storia in modo serio e completo, in un libro che oltralpe divenne un best seller.
A parte queste divagazioni, la figura di Roberto Succo ha posto, e continua a porre, l’insolubile dilemma della schizofrenia. Una malattia che affligge persone apparentemente normali, fino a quando scatta quella scintilla fatale che le induce a gesti inspiegabili e crudeli. Questo ragazzo era stato come tanti altri. E durante i cinque anni di Reggio Emilia era ritornato apparentemente innocuo e ragionevole. È comprensibile che i medici e magistrati locali abbiano ritenuto inumano tenerlo sempre segregato. Ma le vittime che l’omicida ha lasciato dopo la sua evasione, sono testimoni alcuni eternamente muti, altri ancora inchiodati al dolore – di una scelta che, a posteriori, si è rivelata dannosa. E la cosa più triste è che nessuno può dire, ancora oggi, se sia stata giusta oppure no.