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 2017  agosto 11 Venerdì calendario

Camilla Baresani: «Quella grande bellezza della mia Roma di notte»

Spesso Roma la capiscono di più gli scrittori venuti da fuori e capaci di uno sguardo lievemente “straniato”, come è stato per Marco Ferrante e Nadia Terranova. Incontriamo ora un’altra “immigrata”, benché romana di adozione, Camilla Baresani, nata a Brescia, cresciuta a Roma dai nonni, poi ancora Brescia e infine pendolare tra Milano e Roma. Con Camilla, che ha scritto innumerevoli libri citiamo solo l’ultimo romanzo Il sale rosa dell’Himalaya, Bompiani 1914, e un divertissement sul mondo della gastronomia, Gli sbafatori, Mondadori 2015 ho parlato del quartiere dove abita nella capitale, un quartiere un po’ indefinito, tra Parioli, Villa Borghese e corso Trieste, e che viene chiamato Pinciano o Salario o indicato con una denominazione multipla: Piazza Fiume-Coppedè-via Po.
GLI INIZI
La scrittrice fu portata a Roma quando aveva 8 anni – causa i disastri coniugali dei genitori -, dai nonni, che qui vivevano da tempo, due bresciani che adoravano la città eterna. E vi tornò a più riprese, anche per lunghi periodi. I suoi amichetti di Brescia andavano in vacanza a Lignano Sabbiadoro o a Rapallo e lei ad Anzio Colonie, quasi una scelta di involontario snobismo. Poi nel 1994 i nonni vendettero la casa in via Arno per andare a vivere a Desenzano, tra mille rimpianti. In quegli stessi anni, per una fortuita coincidenza, lei si fidanzò con Paolo e cominciò a vivere con lui qui, a due passi dalla casa di via Arno. Le chiedo se il quartiere è molto cambiato da quando lei era una ragazzina: «No, anzi, la cosa che più mi colpisce è proprio la sopravvivenza di tanti piccoli negozi ‘storici’, che non sono stati spazzati via dai centri commerciali: oltre al mercato di via Metauro, il bar Lucarelli, il negozio di camicie e vestaglie Gentlemen, la tintoria con una donna amabile forse senza età, la pasticceria Natalizi, il negozio di abbigliamento Righetto... manca solo il negozio dove comprai il primo disco della mia vita, You’re so vain, di Carly Simon. E tutto questo entro una cornice comunque di oggettivo declino di via Po, un tempo prestigiosa».
CONTESTO FIABESCO
Cosa ne pensa del quartiere Coppedè, un fantasioso delirio anni ’20 di stili (liberty, gotico, fiabesco), con loggette, torri e decorazioni? «Beh, è certamente kitsch, però da bambina mi divertiva molto, lo attraversavo come se fosse la Galleria degli Orrori al luna park, mi ricordava la Villa Feltrinelli a Gargnano, dove abitò Mussolini. Lì davanti c’era il Piper, forse già decaduto alla fine dei ’70, ma sempre un po’ magico. Il fatto è che con i nonni camminavamo tantissimo: si andava a piedi fino a Caracalla (un’ora), ma anche alla Galleria d’Arte Moderna (che mi affascinava, con i quadri dei paesaggisti) e il Museo Etrusco (che mi deprimeva, non capivo i frammenti). Da allora mi è rimasta questa vocazione da flaneur urbana. A volte esco anche alle 3 di notte, magari con i cani e in bici, e come mi è successo la notte di Natale vado alla Galleria Borghese, che è illuminata dentro e tu da fuori puoi contemplare le opere, come “Apollo e Dafne” di Bernini, in una atmosfera un po’ onirica, stregata, che nemmeno Sorrentino...» Altri scrittori si sono soffermati sulla estroversione dei romani. Ma le chiedo se non la infastidisce a volte il nostro gusto della derisione, o certa sbracatezza. «Dipende da dove vieni. Io sono una persona riservata, ma quando ho cominciato ad amare Roma fuggivo dal ‘controllo sociale’ della piccola città così come dalle solitudini epocali di Milano, e qui mi sono sentita accolta. Certo l’umorismo stinge nel sarcasmo, una mia amica scrittrice chiama così i suoi amici: ‘il Mellifluo’, ‘il Degenerato’... Di questo perfido ceto cultural-mondano ho parlato nel mio romanzo Un’estate fa. Però è anche divertente, no?». Quanto è cambiata Roma dagli anni ’70 ad oggi? «Purtroppo in peggio, ma solo nell’ultimo decennio. Non voglio dare la colpa all’attuale giunta però noto uno scadimento della qualità civile, culturale delle nostre vite. Una volta si era orgogliosi di abitare qui, c’era un senso di appartenenza. Si era nel mondo. Oggi invece non mi viene in mente una sola ragione per cui uno possa dire ‘Che figo vivere a Roma’. Allora c’erano le Estati nicoliniane, poi il Giubileo...». Qual è la cosa che più ti piace fare? «Molte. Ma adoro passeggiare a Villa Borghese, guardare gli edifici (la Casina Raffaello, dove c’è una ludoteca, il prezioso Museo Pietro Canonica) e fantasticare sugli appartamenti dove vorrei abitare io, sulle mie immaginarie finestre...».
I LUOGHI SIMBOLO
Le chiedo anche se a via Po, e dintorni, ci sono luoghi culturali, simbolici? «Beh una volta era la strada dei sindacati e dell’Espresso. Un quartiere poco raccontato dagli scrittori, stretto tra i Parioli di Montefoschi e il corso Trieste di Albinati. Ho un debole per piazza Fiume: è brutta ma è come se tutto fosse lì, il capolinea degli autobus, la Rinascente costruita nel 1959, la fermata dei taxi, il vivaio, il rudere antico di Quinto Sulpicio Massimo...». Il setting del suo prossimo romanzo torna ad essere Roma? «No, si muove tra Milano, Napoli e Capri. Sai, non ho vere radici, o anzi le ho multiple. Non dispongo di un baricentro, appartengo a tanti luoghi, a tante piccole patrie, di cui però Roma rappresenta forse quella più persistente».