Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 11 Venerdì calendario

Gli ultimi sei giorni di Romito. Il boss appena uscito di cella sopravvissuto a due attentati

Il giorno dopo la strage di Foggia, il ministro dell’Interno Minniti va in Puglia: «La risposta dello Stato rispetto all’uccisione di cittadini inermi e innocenti sarà durissima: nel Gargano in arrivo uomini e droni. Questa è una grande questione del Paese». Saranno inviati in Puglia, alcuni già da subito, 192 agenti in più. A San Severo sarà costituito un nuovo reparto di repressione del crimine.
Nella sua Disamistade Fabrizio De Andrè cantava che «a ogni sparo di caccia all’intorno si domanda fortuna».
Era così da anni anche a casa di Mario Luciano Romito, l’uomo che gli investigatori ritengono capo del clan che porta il suo nome. Arrivare a sera ogni santo giorno era diventato un regalo della sorte e lui lo sapeva benissimo.
Il 3 agosto, quando il boss di Manfredonia, classe 1967, è uscito dal portone del carcere dov’era finito per scontare la condanna di una vecchia rapina, si è guardato attorno prima di abbracciare chi era andato a prenderlo. Nei sei giorni che ha vissuto da uomo libero non c’è stato minuto che non si sia preoccupato di capire chi avesse alle spalle, che non sia scattato per un rumore sospetto, che non abbia avuto paura.
Gli era andata bene due volte: negli anni scorsi aveva portato a casa la pelle dopo un attentato dinamitardo e dopo un agguato a colpi d’arma da fuoco. Ma sapeva che quelli lo volevano morto e non si sarebbero mai arresi. «Quelli», cioè i nemici di questi ultimi anni che di cognome fanno Li Bergolis, che vengono dal paese di Monte Sant’Angelo e che sono in cima ai sospettati della strage di due giorni fa. Non a caso sono state le loro case, ieri, gli obiettivi di una raffica di perquisizioni.
Erano amici un tempo, i Romito e i Li Bergolis. Poi nel 2009 si celebrò il primo grado del maxiprocesso alla mafia garganica e dagli atti saltò fuori che Franco Romito, il fratello del boss ucciso l’altro ieri a San Marco in Lamis, era stato più volte confidente dei carabinieri, gli aveva lasciato piazzare microspie nelle sue tenute dove avvenivano incontri con i capi dell’altro clan e aveva partecipato a posti di blocco per indicare il passaggio di latitanti.
Fu l’inizio della guerra. Un mese e mezzo dopo la sentenza di quel maxiprocesso (marzo 2009) Franco Romito fu ucciso e da lì in poi è stato un continuo contare morti dall’una e dall’altra parte.
Con Mario Luciano ci provarono una prima volta il 18 settembre del 2009. Misero un ordigno rudimentale nella ruota anteriore e nel vano motore nell’Audi A4 sulla quale, assieme a suo fratello Ivan, stava andando dai carabinieri di Manfredonia per l’obbligo di firma. Rimasero feriti tutti e due. Il secondo agguato è datato 27 giugno 2010. Ancora una volta Mario Luciano era in macchina, in questo caso con suo nipote Michele, 23 anni.
L’auto dei sicari si avvicinò lungo la strada che porta alla statale per Foggia e sulla Y10 del boss e del nipote arrivò una pioggia di colpi d’arma da fuoco che uccise Michele e, ancora una volta, risparmiò lui, il capo clan. Che, va detto, oggi sarebbe ancora vivo se non avesse avuto un buon avvocato e un provvedimento a suo favore del Tribunale del Riesame di Foggia.
È successo che mentre si trovava già in cella per scontare vecchie condanne, la procura foggiana (a ottobre dell’anno scorso) gli aveva notificato una nuova ordinanza di custodia in carcere per l’«operazione Ariete», cioè rapine e assalti ai portavalori. I suoi legali presentarono però un ricorso al Tribunale del Riesame, che lo accolse: non c’erano le esigenze cautelari – stabilì – per tenerlo dentro sulla base di quelle accuse. La procura si rivolse allora alla Cassazione che rimandò tutto indietro: le esigenze cautelari ci sono e quindi la decisione va rivista. Il Riesame-bis non risulta fissato, se si fosse svolto Romito probabilmente sarebbe ancora in carcere. Invece è uscito e i sicari non hanno perso tempo.
Una circostanza normale che diventa mortale. È «la corsa del tempo che spariglia destini e fortune» per dirla con De Andrè.