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 2017  agosto 10 Giovedì calendario

Se Pechino è in mezzo ai due fuochi

Come uno scatenato Giano bifronte Kim Jong-un provoca Donald Trump e mette anche alle corde Xi Jingping. Nano economico, fra i più poveri del mondo quanto a reddito pro capite, la Corea del Nord sta tenendo in scacco le due maggiori potenze mondiali. La miccia che brucia rapidamente verso gli Stati Uniti; all’altro estremo, meno visibile, c’è la Cina.
A Washington ribolle la voglia di reagire; il minaccioso avvertimento del Presidente americano («fuoco e furia come il mondo non ha mai visto») fa rabbrividire, ma rivela anche frustrazione. Il pacato linguaggio cinese non deve ingannare. Washington nasconde l’impotenza a fermare Kim Jong-un.
Pechino nasconde la paura del disastro senza precedenti che egli può provocare. La Cina non sarà messa a bersaglio dai missili nordcoreani, ma sarebbe pesantemente devastata dalle ricadute di una nuova guerra in Corea. Il conflitto non sarebbe limitato come lo fu nei primi Anni 50; difficilmente eviterebbe l’uso dell’arma atomica.
Il regime di Pyongyang non è il solo ad affamare la popolazione e rimanere abbarbicato al potere (vengono a mente le inette autocrazie di Maduro in Venezuela e di Mugabe in Zimbabwe). Ma mentre altri dittatori rimangono nel proprio guscio nazionale, Kim Jong-un conduce un gioco ad alto rischio nucleare che fa oggi della penisola coreana il vero punto di frattura della pace e stabilità internazionale.
Miniaturizzazione di un ordigno nucleare e accelerazione dei lanci missilistici pongono la Corea del Nord sulla soglia della capacità di colpire gli Stati Uniti con un lancio atomico intercontinentale. Per quanto ipotetico, è un rischio che nessun Presidente americano può accettare. Trump ha prospettato niente di meno dell’annientamento della Corea del Nord. Non avverrebbe però prima che Kim Jong-un abbia il tempo di distruggere Seul, invadere la Corea del Sud e magari colpire, se non gli Usa, il Giappone. L’uso da parte dell’arma nucleare, da una parte o da entrambe, ne farebbe uno scenario apocalittico.
Qualsiasi soluzione militare comporta questa tragedia. Gli americani, i sudcoreani, i giapponesi, lo sanno benissimo. È possibile staccare preventivamente la spina offensiva di Pyongyang. D’altra parte tre decenni di diplomazia, tre Presidenti (Clinton, G.W. Bush, Obama), risoluzioni Onu e sanzioni non hanno estirpato il bubbone. Trump è effettivamente a corto di alternative. Ha risposto impulsivamente ma il suo improvvisato «fire and fury», pur nei toni delle irresponsabili minacce di Kim Jong-un («circondare di fuoco l’isola di Guam»; teniamo il territorio americano sotto tiro dei nostri missili balistici), può diventare deterrenza e trasmettere a Pechino il messaggio che Pyongyang va fermata prima che sia troppo tardi.
La Cina lo aveva già raccolto votando a favore della risoluzione 2094 che stringe la morsa delle sanzioni contro la Corea del Nord. Sono un primo passo, se attuate. La loro efficacia dipende dal rubinetto economico cinese.
Alla Cina non dispiace una Corea del Nord cuscinetto con Seul, spina nel fianco degli Stati Uniti e dei suoi alleati nel Pacifico; Pyongyang fa da contrappeso alle varie strategie americane di contenimento della Cina. Ma a una condizione imperativa: che le tensioni con Washington e Seul non degenerino in conflitto. A parte conseguenze immediate, come l’esodo massiccio di popolazione o la contaminazione in caso di uso dell’arma atomica, a parte il rischio di coinvolgimento militare, una guerra coreana sconvolgerebbe l’intera strategia cinese di consolidamento ed espansione regionale – e oltre.
L’intera area Asia-Pacifico risentirebbe pesantemente del conflitto. La Cina sta già incassando i frutti della ritirata americana dal partenariato Trans-Pacifico (Tpp); orfani commerciali degli Usa, i Paesi della regione sono inevitabilmente attirati nell’orbita gravitazionale cinese. L’ha riconosciuto l’Australia. Persino il Vietnam, avversario storico, si è recentemente avvicinato alla Cina. Guardando lontano, Pechino non cela più di tanto una visione di egemonia economica mondiale, sostituendosi agli Stati Uniti come pilastro della libertà commerciale, con la penetrazione sistematica in Africa, con il progetto geopolitico della nuova via della Seta e con l’apertura dei passaggi marittimi nell’Artico.
La visione di una Cina al centro del mondo sarebbe spazzata via nei pochi minuti necessari a un attacco missilistico nordcoreano, a una risposta o addirittura a un intervento preventivo americano di «fuoco e furia». Questo il motivo per cui la Cina deve tenere a bada Kim Jong-un. Per se stessa, non per fare un piacere a Donald Trump. Dobbiamo sperare che ci riesca.