La Stampa, 10 agosto 2017
Gli aiuti di Stato ostacolo alla crescita
Le recenti vicende di Alitalia, banche venete, Mps, Fincantieri e Stx hanno portato all’attenzione dell’opinione pubblica un tema altrimenti negletto, quello del divieto degli aiuti di Stato.
Di cosa parliamo? Il Trattato di Roma che istituì nel 1957 la Comunità Europea, fin dall’inizio dichiarava proibiti, se incidono sugli scambi tra gli Stati membri, gli aiuti statali, diretti o indiretti (per esempio attraverso aziende controllate da un ente pubblico o tramite un’agevolazione contributiva), che favoriscono talune imprese o talune produzioni e in tal modo falsino o minaccino di falsare la concorrenza.
La costituzione europea, insomma, si assicura che la libera competizione sia protetta anche dagli atti dei governi. Se un Comune o una Regione o lo Stato centrale sovvenzionano un’impresa in perdita, questo è il ragionamento, pongono il suo concorrente in una situazione di svantaggio competitivo.
Peggio ancora, si perpetuano i comportamenti inefficienti del produttore sovvenzionato che non sentirà la necessità di migliorare i propri conti, drogato dal denaro pubblico. Non solo tale comportamento è ingiusto, ma l’economia nel suo complesso ne soffrirà.
Ecco perché il divieto agli aiuti di Stato, che ostacolano gli scambi in Europa, è una misura benemerita in più occasioni utilizzata nei confronti dell’Italia. Se la Commissione decide che la sovvenzione pubblica è vietata, lo Stato si trova costretto a riprendersi indietro quanto ha concesso. Se addirittura l’aiuto è sotto forma di un cosiddetto «regime», ad esempio un’agevolazione fiscale concessa automaticamente ad un’intera categoria di produttori, il governo nazionale deve abolirlo e in teoria rintascarsi i benefici prima concessi. Eccezione a tale regola è il criterio «dell’investitore privato», il governo può investire in un’azienda partecipando ad un aumento di capitale se un’impresa privata nelle stesse condizioni lo avrebbe fatto. È una sorta di probatio diabolica che a seconda dell’atteggiamento di Bruxelles può essere interpretata in modo molto elastico o super rigido.
Allora perché l’opinione pubblica ha l’impressione che in alcuni casi vi sia una disparità di trattamento, come ad esempio tra banche italiane e banche tedesche ante entrata in vigore del bail-in, o tra le stesse banche italiane come dimostrano le variegate soluzioni trovate per Mps, venete, Etruria & company; per i prestiti ponte o i passati interventi nell’azionariato di Alitalia o addirittura per Apple che secondo la Commissione europea dovrebbe restituire 14 miliardi di euro all’Irlanda che non li rivuole?
Semplicemente perché un principio chiaro – niente aiuti pubblici perché distorcono la concorrenza – nel corso degli anni è stato sottoposto a così tante eccezioni, specificazioni, integrazioni normative da diventare un labirinto. Primo colpevole, purtroppo probabilmente non eliminabile, è il diabolico test dell’investitore privato sopra citato. Se ce ne fosse uno pronto, a che servirebbero i fondi statali? Ma se non ce ne sono come si fa a dire che i versamenti pubblici non distorcono la concorrenza?
Il secondo elemento di confusione è sicuramente dovuto alla crisi finanziaria. Nell’intento di salvare il sistema bancario, l’Europa ha concesso numerose eccezioni al principio del divieto degli aiuti di Stato, cui ha poi cercato di rimediare con la normativa sul bail-in che mette sulle spalle di azionisti, obbligazionisti non garantiti e i maggiori correntisti l’onere dell’eventuale fallimento di una banca. Ma si è visto che l’applicazione delle molteplici regole, gestite nel nostro caso da governo, Banca d’Italia, Bce e Commissione Europea, è incerta, sicuramente non compatibile con i tempi di risoluzione di una crisi e per di più gestita in modo opaco, molto opaco.
Ma già prima della svolta bancaria si erano inseriti numerosi regolamenti europei di esenzione (dal divieto) per categoria: la formazione, gli aiuti alle Pmi, quelli di importanza minore oppure a favore dell’occupazione o delle imprese che gestiscono servizi di interesse generale (esempio bizzarro: i taxi londinesi possono utilizzare le corsie degli autobus ma non i veicoli a noleggio con conducente). A ciò si è aggiunta la comunicazione per la «modernizzazione» degli aiuti di Stato che raccomanda, guarda caso, di fare più attenzione ai «fallimenti di mercato» che potrebbero giustificare la manina pubblica: e i «fallimenti di Stato»? Il Trattato stesso, definendo come potenzialmente compatibili con il mercato gli aiuti per «la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo», «lo sviluppo di talune attività o regioni economiche» o la «cultura e la conservazione del patrimonio» (vedi sovvenzioni al cinema o alla tv), già aveva aperto delle maglie dentro cui si infilava la forza politica del richiedente.
Insomma, per chi spera in una minore interferenza della politica nel mercato, l’Europa rimane un baluardo (qualsiasi governo italiano ha istinti peggiori), ma più confuso ed incerto di una volta. Last but not least: per Stx paradossalmente l’intervento francese non è contrario alle regole degli aiuti di Stato perché l’operatore privato disposto ad investire c’è, ossia Fincantieri! Siamo però di fronte a un trattamento discriminatorio, ma questa è un’altra storia.
*Presidente The Adam Smith Society adenicola@adamsmith.it