la Repubblica, 10 agosto 2017
Il sogno lungo 50 anni di Syd Barrett pifferaio psichedelico. Nell’agosto del 1967 usciva “The piper at the gates of dawn” il primo album dei Pink Floyd con suoni totalmente nuovi
Più che quello di un disco potrebbe essere l’anniversario di un sogno: cinquant’anni esatti da quando un angelico poeta di nome Syd Barrett, dopo aver scoperto l’Lsd, dopo aver fatto una crasi tra due oscuri bluesmen di nome Pink Anderson e Floyd Council, dopo aver visto nelle sue visioni che la musica poteva essere uno specchio magico per entrare in altre dimensioni, riuscì a portare a termine il primo disco della sua band. S’intitolava The piper at the gates of dawn. Di nome e di fatto. Un pifferaio magico che si aggirava alle porte dell’alba ed esercitava un’irresistibile attrazione, a cominciare dall’incipit, Astronomy domine, un suono che sembrava un telegrafo morse battuto direttamente dallo spazio, e via a seguire sull’onda di una sperimentazione ai limiti dei confini del conosciuto. Tempo fa Nick Mason, il batterista dei Pink Floyd, allo Studio 3 di Abbey Road ci raccontò che quel primo disco l’avevano registrato proprio lì, dov’eravamo, e già l’idea bastava a produrre un leggero ma inevitabile brivido, e aggiunse che tutto ciò avveniva esattamente nel periodo in cui nello studio a fianco, quello grande, i Beatles stavano incidendo Sgt. Pepper, anzi per essere ancora più precisi, stavano lavorando a Lovely Rita. Pensate che tempi. Si faceva a gara a chi la sparava più grossa. Ambizioni sfrenate, deliri creativi, arte senza compromessi e intanto nel giro di cinque o sei mesi sono uscite abbastanza musiche da alimentare svariati decenni di immaginazione. Per questo è più che altro l’anniversario di un sogno. Il disco dei Pink Floyd rifletteva la libertà dei loro concerti, la voglia di aggiungere alla musica rumori, voci, effetti elettronici. Allora erano un gruppo ancora poco conosciuto, anche se avevano inciso qualche singolo di modesto successo, tra cui una stupenda Arnold Layne, prima canzone in assoluto nella storia rock a parlare di un travestito, e per giunta cleptomane, ma avevano già acquisito una notevole reputazione grazie alle loro esibizioni nei club alternativi londinesi come band ufficiale dell’underground. A vederli ci andavano anche Lennon e McCartney, appunto. Uno di quei club si chiamava UFO, tanto per non lasciare nulla al caso. E loro per certi versi un “oggetto non meglio identificato” lo erano davvero, o almeno così Syd Barrett voleva che apparisse, un mistero, diciamo una passeggiatina nell’ignoto. Cinquant’anni fa si sognava, sognavano i ragazzi, sognavano i musicisti e questi sogni cercavano di tradurli in musica nell’idea di infettare la società del tempo col benefico virus. Del resto mai nessun gruppo ha saputo guardare lontano quanto i Pink Floyd, nessuno è riuscito a portare questo livello di fantasia a un pubblico così sterminato, interclassista, intergenerazionale, duraturo, fedele fino all’estremo, e probabilmente la ragione per cui dopo cinquant’anni il loro nome è ancora circondato da un’aura quasi soprannaturale, è esattamente questa. Dite ancora oggi Pink Floyd ed è molto probabile che il vostro interlocutore, a patto che abbia più di trent’anni (ma neanche questo è certo) vi guardi con gratitudine. Il sogno Pink Floyd è iniziato esattamente il 5 agosto di cinquant’anni fa, con titoli immagnifici come The gnome, Interstellar overdrive, Lucifer Sam, grazie soprattutto a quella prima scintillante visione di Syd Barrett, talmente abbagliante da averlo di fatto accecato. Il suo lavoro effettivo si riduce praticamente a questo solo primo album. Ma il solco era tracciato e gli altri Pink Floyd, prima a fatica, poi sempre più liberi dal peso dell’assenza di Barrett e dallo sconvolgente senso di colpa di averlo abbandonato a se stesso e al vuoto desolante della sua mente malata, riuscirono a rilanciare quel sogno degli inizi e a creare i loro massimi capolavori: Meddle, Dark side, Wish you were here, il disco in cui riuscirono finalmente a rendere omaggio all’amico abbandonato con una delle più belle canzoni rock mai scritte, e certamente il più struggente omaggio reso alla bellezza devastante della mente di un genio che scivola nella follia. Si intitola Shine on you crazy diamond, e parla proprio di lui, di quell’angelo sfortunato, del “diamante pazzo” che cinquant’anni fa si presentò al mondo come The piper at the gates of dawn.