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 2017  agosto 10 Giovedì calendario

L’oro bianco che incantò Michelangelo

Salito sul Monte Altissimo delle Alpi Apuane il grande artista si mischiò con gli operai che estraevano il marmo. Allora come oggi Scolpire una montagna intera: era questo che Michelangelo sognava di fare. Trasformare la cima che vedete – quella del Monte Altissimo, nelle sue adorate Alpi Apuane – in una singola figura, enorme. Tirar fuori da quel monte di candido marmo un colosso bianchissimo che brillasse al sole, e che i naviganti vedessero fin da lontano, giungendo per mare alle coste della Versilia. «E certo l’arebbe fatto – scrive il suo biografo Ascanio Condivi – se ’l tempo bastato gli fusse, o l’impresa per la quale era venuto l’avesse concesso. Del che un giorno ne sentì molto dolore». È difficile, oggi, lasciarsi andare al fascino estremo di questi luoghi: perché siamo noi a sentire «molto dolore» di fronte alle Apuane che perdono il loro profilo, consumate da un’industria vorace che non produce i corpi divini di Michelangelo, ma soprattutto polvere per dentifrici sbiancanti. Eppure, di fronte a queste spettacolari fotografie, riusciamo a intuire cosa vedessero gli occhi, cosa sentisse il cuore di Michelangelo. «Non ha l’ottimo artista alcun concetto / c’un marmo solo in sé non circonscriva / col suo superchio, e solo a quello arriva /la man che ubbidisce all’intelletto». Non è la mano, ma la mente – scrive il Buonarroti in questo celeberrimo sonetto – che giunge a liberare il corpo imprigionato in un singolo blocco di questo marmo. È la forza intellettuale ed etica di chi è disposto ad accettare la sfida del marmo. Ma come? Come si faceva, in concreto, a liberare la figura dal marmo «superchio» – cioè da quello in eccesso, che circonda e soffoca il corpo, rendendolo visibile, anzi intuibile, solo all’artista? Giorgio Vasari lo spiega con insuperabile chiarezza didattica: immaginate di prendere «una figura di cera o d’altra materia dura» e di metterla stesa sul fondo di «una conca d’acqua, la quale acqua essendo per sua natura nella sua sommità piana e pari»: poi immaginate di sollevare «la detta figura, a poco a poco», tenendola sempre perfettamente orizzontale, fino a farla affiorare. «Così – continua Vasari – vengono a scoprirsi prima le parti più rilevate et a nascondersi i fondi, cioè le parti più basse della figura, tanto che nel fine ella così viene scoperta tutta». Ebbene: «Nel medesimo modo si debbono cavare con lo scarpello le figure de’ marmi, prima scoprendo le parti più rilevate». Ma prima di farli emergere bisognava vederli, questi corpi: guardare le lastre scabre e abbacinanti di queste foto, e vedere – dentro – l’umanità. I corpi e il marmo: questo rapporto letteralmente viscerale che Michelangelo seppe tradurre in poesia altissima era, prima ancora, il rapporto tra il corpo forte, ma vulnerabile, dei cavatori e il corpo della montagna. È quello che il Buonarroti imparò a conoscere, stando – dice sempre Condivi – «in quei monti con due servitori e una cavalcatura, senza altra provisione se non del vitto, più d’otto mesi». È così che lo scultore divino si fece pari agli operai poveri e fierissimi che da secoli davano l’anima e il sangue per strappare il marmo perfetto alle Apuane. Ancora oggi – come mostrano nel modo più eloquente queste fotografie in cui i piccoli corpi colorati degli uomini pendono sul grande ventre, bianco e squarciato, della cava – sulle Apuane si gioca un corpo a corpo che nessuna tecnologia può rendere senza rischi. E il prezzo che la montagna impone a chi ha il coraggio di violarne le viscere può essere terribile.