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 2017  luglio 24 Lunedì calendario

Enrico Ameri parlava senza enfasi alla stessa velocità del pensiero

F orse saranno stati i viaggi in Indocina. Questo il motivo, fantasioso, per cui Enrico Ameri avesse quel ritmo di voce unico, continuo ma mai noioso, scontato, prevedibile. Da inviato Rai, in quelle terre così lontane e che nulla avevano a che fare con l’oggetto poi vero della sua carriera, Enrico imparò a parlare con la stessa velocità del pensiero. L’enfasi non faceva parte del suo repertorio. Da bambino, affascinato dalle cronache di Nicolò Carosio e da altri personaggi dell’Eiar (ente italiano audizione radiofoniche) si allenava parlando all’interno delle pentole di cucina, così che la voce rimbombasse, come avveniva, a volte, con certe radiocronache del regime. Ho scritto regime apposta, perché Enrico mai sventolò bandiera ideologica o fece propaganda politica, come si usa oggi per accelerare carriere altrimenti ferme al binario morto, ma partecipò da militare alla Repubblica Sociale e mai negò una certa fede per le idee di destra, allora della Fiamma del Movimento Sociale. 
Per ribadire il concetto che a quel tempo, il mestiere di giornalista, fosse una cosa feroce, da marciapiede e non da salotto o Wikipedia, Ameri venne assunto per occuparsi di ogni ma non di football. Anzi venne pure bocciato al primo provino. Gli affidarono la cronaca della MilleMiglia, fu il suo debutto un po’ fantozziano, prima della conclusione gli prese un attacco di ansia e Nando Martellini gli tolse di mano il microfono per portare a termine il racconto della corsa. Qui voglio e devo raccontare l’episodio che rese lui e Sandro Ciotti protagonisti del «brutto della diretta». Il fatto, o misfatto, avvenne il ventisette di aprile del settantacinque. Al Comunale di Torino la Juventus affrontava la Lazio e al San Paolo il Napoli sfidava l’Inter. Campo centrale ad Ameri, seconda partita, Ciotti. Parla Ameri: «...comunque la Lazio, con Re Cecconi, ha recuperato il pallone, lo lancia sulla destra...», Ciotti: «Scusa Ameri, sono destinato ad interromperti oggi, il Napoli ha portato di nuovo a due le lunghezze di vantaggio sull’Inter segnando con Braglia, il risultato, dunque è sul 3 a 1». Ameri: «La palla è terminata fuori sull’azione che avevamo descritta sulla rimessa in gioco della Juventus, a voi Napoli». Ciotti: «Dove si gioca il ventiduesimo...». Ameri: «Come si fa a essere così coglioni come questo!...». Ciotti: «...il ventiduesimo del secondo tempo e come segnalato con il flash su Ameri il Napoli ha portato di nuovo a due le lunghezze si vantaggio...», Roberto Bortoluzzi dallo studio centrale: «Attenzione Ameri, sto per cederti la linea e prego di tenere chiuso il microfono al termine dell’intervento». Ameri. «Sì, Bortoluzzi, d’accordo. Pochi istanti fa siamo stati costretti a respingere l’attacco di un tifoso laziale che voleva entrare in cabina».
Il caso non era chiuso, come il microfono, ma non provocò tumulti in Tutto il calcio minuto per minuto. A taste of honey, la sigla con la tromba di Herp Albert, proseguì la sua storia. Tra i due, Enrico e Sandro, c’erano differenze sostanziali, di lessico e frequentazioni, Ciotti viveva la sua Roma di piaceri diurni e notturni, Enrico aveva un altro tipo di vizio: il gioco delle carte, la scopa. Portava con sé un mazzo di napoletane, sempre. Arrivava allo stadio con tre ore di anticipo, per preparare ogni dettaglio e sistemare la postazione ma soprattutto il tavolo, il triangolo, il segmento dove smazzare, distribuendo le carte da gioco. Non c’era un solo momento, sul pullman che ci portava allo stadio, nelle trasferte all’estero, lungo le file all’aeroporto, sulle valigie, in piedi, tenendo le carte sul passaporto, o ancora sul bancone dell’albergo, mentre il portiere si voltava per ritirare la chiave della camera e consegnarla, Enrico aveva già smistato le carte, proponendo il gioco. Con Ciotti grandi sfide, seriose, con il muso da battaglia feroce. Lì non c’era il primo o il secondo, il campo centrale stava sul tavolo, quando partiva la scopa il colpo era secco, quasi un martello, una sciabolata. Al Nurburgring, prima di un gran premio, Ameri chiese a Ciotti se avesse una sigaretta, una sola, perché aveva deciso di smettere con il tabacco. Sandro gli concesse la possibilità: «In un’ora e mezzo mi fece fuori tutto il pacchetto. Mai che non mancasse la parola data», ricordò Ciotti.
Fu storica la radiocronaca di Italia-Germania 4-3, Mexico 70. Storica la partita ma storica la narrazione di Enrico che non perse mai il tempo suo, esclusivo, senza mai ricorrere all’enfasi, allo strepito, all’intonazione esagerata o esasperata. Il lessico di Enrico era classico, «si accinge», «si appresta» «è in procinto di calciare». Non diceva mai «gol» ma «rete». Quel giorno, all’Azteca, di Città del Messico, gli stava di fianco Alfredo Provenzali, un altro monumento della Rai. I novanta minuti furono tormentati con il pareggio all’ultimo secondo di Schnellinger, i supplementari, poi, leggendari. Muller, Burgnich, ancora Muller, Riva, quindi Rivera. Due ore di cronaca, senza interruzione pubblicitaria. Provenzali scrisse due righe su un foglietto di carta e la passò ad Ameri. «Come posso aiutarti?». Enrico lesse l’appunto senza perdere di vista il campo e rispose, scrivendo sempre sullo stesso biglietto: «Massaggiami». Così fu, Alfredo incominciò a passare le mani sulla schiena, le spalle, la nuca di Ameri. Questa era la radio, questo era il giornalismo, questa l’amicizia. Il ventisei di maggio del Novantuno, a Marassi, in Genoa-Juventus, Enrico si congedò così: «Questa è stata l’ultima mia radiocronaca, sono fatto così, scusatemi e arrivederci». 
La vita ha strani percorsi e imprevedibili arrivi. Enrico Ameri morì nove mesi dopo Sandro Ciotti. La tromba di Herp Albert con il suo A taste of honey continua la sua storia. Non abbiamo più la stessa attesa.