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 2017  luglio 24 Lunedì calendario

«Allargare il 416 bis? Semmai l’opposto». Intervista a Franco Coppi

«Il reato di mafia copre una fattispecie ampia che a volte sembra persino troppo indeterminata. Prima di decidere che va cambiato io direi di aspettare, leggere le motivazioni della sentenza appena pronunciata, e ragionare a freddo per capire se davvero è necessario modificare in qualche punto l’attuale normativa». Il professor Franco Coppi, tra i più importanti penalisti italiani e in predicato per diventare prossimo giudice costituzionale, davanti a un tema che scalda il dibattito politico come l’uso del reato di mafia nei recenti fatti corruttivi romani, preferisce usare la freddezza dettata dall’esperienza. 
Professore, l’attuale reato di mafia riesce a colpire il fenomeno della criminalità organizzata per come essa agisce oggi?
«Secondo me così com’è il reato colpisce un metodo di condotta che ha delle sue specificità. Volta per volta si valuta se i fatti corrispondono a fattispecie che rientrano in quel reato. Voglio ricordare, tra l’altro, che l’associazione per delinquere semplice prevede pene anche molto pesanti. Al processo di giovedì sono state date condanne fino a vent’anni di carcere, non è esattamente uno scherzo». 
Esiste la mafia a Roma?
«Di certo questa sentenza non ha detto che non c’è, ha invece specificato che, in questo caso, esiste un’associazione a delinquere che agisce con forme che non possono essere definite mafiose per come la legge definisce la mafia in questo momento». 
Proprio per questo motivo, alcuni, a cominciare dal capo della polizia Franco Gabrielli, dicono che il reato, per come è previsto ora, non riesce ad intercettare le forme della criminalità organizzata moderna, che magari usa meno la violenza di un tempo, ma di fatto costruisce vincoli e intimidisce allo stesso modo...
«Io lascerei un po’ decantare la materia, non si può prendere una decisione tanto grave un giorno dopo la lettura del dispositivo, non sappiamo neppure cosa hanno detto i giudici e perché hanno deciso di definire quella organizzazione come associazione per delinquere semplice. Ad esempio, potrebbero essere stati loro stessi ad evidenziare carenze di carattere normativo. Solo dopo la lettura della sentenza sarà possibile ragionarci sopra». 
Lei ha partecipato al processo anche come penalista, seppur rappresentando una posizione minore come quella di Giordano Tredicine. Che idea si è fatto, questa era un’organizzazione mafiosa oppure no? 
«Nel processo ho tutelato una posizione tutto sommato marginale, appunto, e mi sono limitato a verificare il ruolo del mio assistito. Dunque non sono riuscito ad avere l’effettiva contezza di tutto e dell’andamento dell’intero dibattimento in aula. Dico davvero, sono curioso di leggere la sentenza e capire meglio il ragionamento fatto dal collegio della Decima sezione penale». 
Secondo lei, il 416 bis come attualmente definito riesce ad intercettare le modalità di azione delle mafie moderne? È un reato sufficientemente chiaro, anche alla luce della giurisprudenza?
«Quello di cui ci lamentiamo noi avvocati è in realtà il problema contrario. Già oggi il 416 bis è un reato troppo ampio e indefinito che abbraccia aspetti molto discutibili. I giuristi tendono a pensare che questa fattispecie sia troppo indeterminata e che andrebbe, invece, meglio circoscritta. Dunque, almeno finora, la riflessione, non solo mia, è andata in senso contrario all’ulteriore ampliamento». 
Secondo lei mafia capitale è stato un processo eccessivamente mediatico? 
«Purtroppo di processi mediatici ne vedo tutti i giorni. A volte c’è l’ovvia preoccupazione che questa eccessiva attenzione metta effettivamente in pericolo la tranquillità del giudice al momento di esprimersi. 
Il suo è un mezzo sì...
«Diciamo che io credo si dovrebbe avviare una riflessione più ampia sul rapporto tra la stampa e il potere giudiziario, che includa una chiara definizione di cosa si intende per diritto di cronaca e diritto di essere informati, anche alla luce di fatti di cui ho potuto prendere cognizione personalmente. 
Secondo lei, i giornalisti vengono a conoscenza di troppi aspetti dell’indagine prima che questa sia effettivamente conclusa?
«Il problema è forse che questa conoscenza è ampia eppure mai completa. Prendiamo questo processo, che include decine di migliaia di pagine. Io credo che, anche tra i giornalisti, pochi le abbiano lette davvero tutte e con la medesima attenzione. Spesso ci si limita a soffermarsi su piccoli dettagli, su elementi che meglio si prestano al meccanismo mediatico. E l’opinione pubblica finisce per essere solo apparentemente informata».