Il Messaggero, 16 luglio 2017
La peste di Camus, così l’orrore cancella le ideologie
Ci sono libri che, in non più di duecento-trecento pagine, sulla vita e sulla morte, sul loro inesplicabile senso, dicono di più d’interi trattati filosofici e teologici. La peste di Albert Camus è uno di questi. E certi libri come La peste vanno riletti in età matura, come a me è accaduto, grazie alla casa editrice Bompiani che ha appena ripubblicato il romanzo (pagine 326, euro 13,00; nuova traduzione di Yasmina Mélaouah, ma poteva bastare e restare quella classica di Beniamino Dal Fabbro). La peste è il racconto di un flagello, talmente semplice e privo di elementi romanzeschi, da costringere il lettore a farsi suo malgrado giudice di un evento così tragico, così disumano da non avere alcuna giustificazione: nemmeno nel religioso senso di un male necessario, che incredibilmente può persino portare alla salvezza.
Giovanni Macchia lo ha spiegato come meglio non si potrebbe: «La peste, come nelle tirannie, divide l’uno dall’altro e nel terrore del contagio scava l’esilio entro di noi. Cosa ci insegna la religione? Ci insegna a sperare, a sottometterci, a subire, per un mondo che non è questo mondo. Cosa ci insegna una certa ragione? Ci insegna ad accettare la storia, a giustificarla, una forma come un’altra di collaborazione. Mentre la storia non si giustifica».
SCIAGURA CRIMINALE
Un fatto è un fatto, un crimine è un crimine, e la peste è una sciagura criminale che dice Camus non può avere alcun senso. Quando nel 1947 il romanzo venne pubblicato, per i lettori fu chiaro che l’Europa, annichilita dalla seconda guerra mondiale, aveva più bisogno di medici che di santi. E per quanto riguarda i medici, era altrettanto chiaro che ci si riferisse a coloro i quali avevano in cura la ricostruzione dell’Europa. Ma sbaglieremmo se leggessimo La peste come la cronaca delle nefandezze del nazismo, come l’agghiacciante resoconto dell’assurdità della guerra: il romanzo di Camus è l’evidente rivolta contro una condizione umana tremenda e incomprensibile. Bastano le pagine in cui è descritta la morte per peste di un bambino. «Grosse lacrime spuntarono sotto le palpebre infiammate per scorrere sul volto livido e, alla fine della crisi, esausto, il bambino contrasse le gambe ossute e le braccia da cui la carne in quarantotto ore si era dissolta e nel letto devastato prese la posa grottesca di una creatura crocifissa». E ancora: «Nel volto ormai rappreso in un’argilla grigia, la bocca si aprì e ne uscì quasi subito un lungo grido ininterrotto, appena alterato a tratti dal respiro, che subito riempì la corsia di una protesta monotona, e così poco umana che sembrava venire da tutti gli uomini insieme». Un prete che vegliava la creatura (un uomo di chiesa che aveva precedentemente giustificato tutto quell’orrore, tentando di ragionare su un insondabile disegno divino) «guardò quella bocca di bambino, insudiciata dalla malattia, piena di quel grido senza età. E si lasciò scivolare in ginocchio e tutti trovarono naturale sentirgli dire con voce un po’ soffocata, ma nitida dietro il lamento anonimo che non cessava: Signore, salvate questo bambino».
Il piccolo morirà. E il prete non potrà che insistere sul male necessario. Infatti dirà: «È qualcosa che oltrepassa la nostra misura, ecco perché ci rivolta. Ma forse dobbiamo amare quel che non possiamo capire». Nella replica di un medico, il quale non si sente toccato dalla grazia, c’è forse il senso del romanzo: «È quel che io non ho, lo so. Ma non voglio discutere di questo con lei. Noi lavoriamo insieme per qualcosa che ci accomuna al di là delle bestemmie e delle preghiere. Solo questo conta».
UN POSSIBILE DIO
Al di là delle bestemmie e delle preghiere, in un universo in cui un possibile Dio si mostra anche attraverso la peste, nel lavorare insieme, in fraternità, è forse l’unica via di salvezza.
Grande libro, questo di Camus, il quale, se la morte non lo avesse spazzato via a soli quarantasette anni, chissà quali e quanti altri capolavori avrebbe donato alla letteratura. Nella sua breve vita, tuttavia, gli fu dato assaporare il successo, una grande popolarità non in contrasto con la stima della critica più avveduta.
Aveva quarantaquattro anni quando gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura. Amico di Jean-Paul Sartre, ruppe presto con il filosofo e con i suoi seguaci, proprio a causa della pubblicazione de La peste. Era troppo palesemente antideologico, quel romanzo. Non soltanto rivolto contro incomprensibili pene da subire sulla terra per ottenere un premio nell’aldilà, ma anche contro un’altra chiesa che la rivoluzione socialista mostrava, ai suoi occhi, di imporre in Europa.
«Morale da Croce Rossa»: così, Sartre e gli esistenzialisti più in vista, definirono quella espressa ne La peste. Il contrasto tra Camus e Sartre è storia vecchia, superata, ma ci permette di comprendere come alcune utopie, come alcuni tabù nati alla fine della seconda guerra mondiale, siano ancor oggi presenti nel mondo della politica e della cultura. Così come si legge a chiusura del romanzo il bacillo della peste perdura, pronto a risvegliarsi in qualsiasi momento.