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 2017  luglio 16 Domenica calendario

Radio, quanto sei social

È il 1986, luglio, e un flusso ininterrotto di insulti, minacce, vaffanculi e sessismo avvolge l’Italia. I social network arriveranno dopo una ventina d’anni ma il peggio di quello che Facebook e Twitter riusciranno a tirar fuori dalle dita umane quando pigiano sulla tastiera c’è già tutto. E con un canale di comunicazione in più: la voce.
Perché esce dalla radio. È Radio Radicale, c’è dal 1975, quando dopo una sentenza della Corte Costituzionale sono nate le radio libere. Diventano centinaia. Con migliaia di persone che da un giorno all’altro, improvvisando, dopo aver parlato all’assemblea cominciano a farlo davanti a un microfono.
Nel 1986 la fioritura sta appassendo. Radio Radicale ha un problema di soldi e Marco Pannella reagisce con una delle sue provocazioni. Apre il microfono a tutti: dite quello che pensate della radio, lasciate un messaggio in segreteria, li mandiamo in onda tutti, nessun taglio, nessuna censura. I messaggi arrivano come un fiume. Ci sono trenta segreterie telefoniche e non bastano. Ma nessuna parla di Radio Radicale: sono opinioni su ogni argomento, fatti personali, sberleffi e accuse. Sono insulti a carattere politico contro tutti e molti contro i radicali. Una voce di donna, mezz’età, accento napoletano, se la prende con gli scioperi della fame: “Nuje a fame a’ facimme senza ‘ o sciopero. La nostra è ‘ na fame radicale”. Poi ingiurie tra tifosi e molto odio etnico: “Sono Roberto e chiamo da Milano, (…) volevo dire a quella manica di terroni di Roma che siete delle teste di cazzo inaudite a fare quelle telefonate oscene, pirloni, barboni, andate a lavorare, pirlaaa! Grazie”. Telefonate contro “negri, ebrei e paninari”, tutti contro qualcuno e molte bestemmie. C’è lo sfogo liberatorio, l’idea che finalmente posso dire quello che voglio e con tutta la rabbia di non averlo detto prima, c’è la garanzia dell’anonimato. C’è la velocità: massimo un minuto. Non è molto diverso da una mattina qualsiasi, oggi, su un social network.
Le voci, le intonazioni, dicono di un’eccitazione adolescenziale, del piacere di insultare, del narcisismo – sono io, sono qui, mi sentite? – dell’ebbrezza di violare le regole.
Ne esce il ritratto di un’Italia completamente sconosciuta a tutti gli altri mezzi di informazione.
Meno alle radio. Perché la radio è porosa, più penetrabile di giornali e tv agli umori di chi sta dall’altra parte. E capace di metterli in pubblico. Aveva cominciato la Rai, il 7 gennaio 1969, alle 10.40, con Chiamate Roma 3131. Chiamano gli ascoltatori, in diretta, chiedono pareri. Si parte con questioni medico-scientifiche; poi si allargherà il campo. È un’idea di Luciano Rispoli: “Nacque dall’ascolto di una psicologa che trasmetteva per la radio francese.
Rispondeva ai quesiti degli ascoltatori su argomenti di sessuologia avendo un notevole successo. Fui impressionato da due cose: intanto dall’argomento, che era estraneo alla radiofonia di allora, molto contenuta, se vogliamo un po’ perbenista, e poi dal fatto tecnico, del rapporto diretto tra una persona qualificata (la psicologa) e il pubblico. Questo mi impressionò molto (…) quella era la rivoluzione, la radio del futuro”. Un po’ lo fu. Per via del fatto che mai, prima di allora, alla radio si erano sentite le voci di chi la ascoltava. Erano, la radio e i suoi ascoltatori, mondi separati.
Con Chiamate Roma 3131 le persone comuni iniziano a dire qualcosa. “Il vero protagonista ed effettivo regista è soltanto il pubblico” scriveranno i giornali. Non è proprio vero. Ci sono i filtri alle telefonate, le “ragazze pettine”. Ci sono i funzionari che vigilano, perché c’è sempre il timore che vada in onda qualcosa che non si controlla. Si chiede all’ascoltatore cosa vorrebbe dire, poi lo si richiama. Ma è lui, uno comune, con la sua voce, che dice di sé. Saranno soprattutto casalinghe, l’ora è adatta a loro: buoni sentimenti e un manto di cattolicesimo. Un grande successo: milioni di ascoltatori, migliaia di telefonate. C’entra la capacità “naturale” della radio di essere un ponte tra sfera pubblica e sfera intima, per via del sentirla vicina, come se parlasse solo a te, anche se l’ascoltano in milioni. C’entra il telefono. Lui e la radio sono stati separati alla nascita. Il telefono deputato alla comunicazione della sfera privata; la radio a quella pubblica. Quando si reincontrano con le telefonate in diretta, muta la lingua della radio e ne cambia l’anima. Nasce un canale nuovo per l’antico bisogno molto umano di voler dire qualcosa – anche se non si ha sempre proprio qualcosa di preciso da dire – e quello di essere connessi a qualcun altro, anche solo per dire che no, non sono per nulla d’accordo e mandarlo a quel paese. O di sentirsi connessi, a volte basta questo. Quello che cerchiamo nei social network è stato soddisfatto per molti decenni dalla radio. Radio Popolare, voce della sinistra milanese, con il suo Microfono Aperto ne ha trasmesso, impastato ed elaborato umori e tormenti. Negli anni dell’espansione e in quelli dell’affanno. “Il Microfono Aperto è nato insieme a Radio Popolare e ne resta un cardine”. Se ne era accorto Bertolt Brecht, già nel 1933, quando la radio è giovane davvero: “Potrebbe essere per la vita pubblica il più grandioso mezzo di comunicazione che si possa immaginare, (…) se fosse in grado non solo di trasmettere ma anche di ricevere, non solo di far sentire qualcosa all’ascoltatore ma anche di farlo parlare, non di isolarlo ma di metterlo in relazione con gli altri”. Radio Radicale in versione Parolaccia andò in onda per trentacinque giorni ininterrotti, fino alla vigilia di ferragosto. E poi di nuovo nel 1990 e nel 1993. La radio che fa parlare le persone, civilmente, si prova a farla tutti i giorni.