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 2017  luglio 16 Domenica calendario

Bikini, la natura vince dopo le bombe. Sorpresa: nell’atollo della morte rivivono granchi, pesci e coralli

ROMA Il 15% di tutta l’energia sprigionata dai test atomici degli anni ‘40 e ‘50 si è concentrata sull’atollo di Bikini. Un rapporto Onu del 2012 ha definito la contaminazione delle isole “praticamente irreversibile” e agli uomini è ancora vietato abitare lì. Eppure quando un gruppo di biologi marini dell’università di Stanford si è immerso nel cratere creato dalla deflagrazione più devastante (1.100 volte più potente di Hiroshima) si è trovata circondata da pesci e coralli. Settant’anni dopo l’era dei test, la vita a Bikini è riesplosa, più prepotente delle bombe.
La missione dei biologi-sub americani è diventata un documentario della serie “Big Pacific”, trasmesso il 28 giugno dal canale Pbs. I coralli sono cresciuti fino a tre-quattro metri di ampiezza, con rami di 30 centimetri di diametro. Nella scogliera nuotano squali e tonni, mentre i granchi si nutrono impunemente di noci di cocco il cui liquido è imbevuto di cesio-137 radioattivo. A differenza di alcuni animali che sono tornati a popolare la “zona rossa” di Chernobyl, i crostacei non mostrano segni di deformazioni.
Al messaggio ecologico della loro missione, gli scienziati di Stanford ne hanno voluto affiancare anche uno medico. Si sa infatti che le radiazioni favoriscono le mutazioni del Dna e aumentano il rischio di cancro. «Studiando come i coralli sono riusciti a ripopolare un cratere così radioattivo, speriamo di scoprire come il Dna riesce a mantenersi intatto e riparare se stesso» ha spiegato Stephen Palumbi, professore di scienze marine e leader della missione che a maggio dell’anno scorso si è immersa nelle acque di Bikini, dove il livello di radiazione ancora oggi è 20 volte più alto di Central Park a New York.
Le dimensioni raggiunte dai coralli suggeriscono che la loro età si aggiri attorno ai cinquant’anni, e che dunque la ricrescita sia iniziata 10-20 anni dopo i test nucleari, in un ambiente molto più radioattivo rispetto a oggi. «Evidentemente aggiunge Palumbi – questi organismi hanno una capacità particolare nel contrastare le mutazioni del Dna e nell’evitare gli errori che di solito avvengono durante la duplicazione della doppia elica. La nostra speranza è imparare qualcosa di utile per la lotta al cancro».
Immaginare una ricaduta positiva per i test nucleari del Pacifico è di sicuro una scommessa. Il cratere visitato da Palumbi è una voragine di 2 chilometri di diametro e 37 metri di profondità, frutto dell’esplosione della bomba termonucleare Castle Bravo. I militari americani si aspettavano una potenza di 4,5 megatoni. L’ordigno il primo marzo del 1954 ne rilasciò 15, sbriciolando tre isole, facendo ribollire l’acqua a 55mila gradi, alzando onde di 30 metri e trasportando milioni di tonnellate di sabbia e residui altamente radioattivi fino a 150 chilometri di distanza, grazie a un gagliardo vento di ponente del quale nessuno si era curato alla vigilia. Un pescatore morì subito, migliaia restarono contaminati. Di lì a poco, vista la portata del guaio, i test cessarono del tutto. In totale, tra il 1946 e il 1958, nell’atollo che fa parte delle isole Marshall, a circa metà strada tra Hawaii e Giappone, furono scaricati 76,3 megatoni di energia. La motivazione ufficiale: “Fare il bene dell’umanità e far cessare per sempre le guerre”. Evidentemente, se proprio nell’estate del ‘46 in cui i test ebbero inizio il termine bikini – nella sua accezione di esplosivo e dirompente – passò dall’atollo al costume da bagno, vuol dire che l’impatto sul pubblico degli esperimenti atomici non era poi così negativo.
L’analisi del Dna prelevato fra i granchi e i coralli – ancora in corso – ci dirà se effettivamente qualcosa di utile spunterà da quelle esplosioni. Ma la missione di Stanford non è la prima a mostrare la sorprendente capacità della vita di riprendersi i suoi spazi, quando l’uomo è costretto a girare alla larga. Nel 2008 un altro gruppo di biologi australiani si immerse nel cratere di Bravo e osservò i coralli rifioriti (anche se con un quarto di specie in meno rispetto all’epoca prima dei test), grazie soprattutto alla “contaminazione” della vita arrivata dal vicino atollo di Rongelap.