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 2017  luglio 17 Lunedì calendario

Fermate la donna senza volto

Maggio 1993. Lieselotte Schlenger è una pensionata 62enne di Idar-Oberstein, centro della Renania famoso per la chiesetta incastonata tra le rocce e la lavorazione delle pietre preziose. Ama i gatti e le torte, ne ha appena fatte due al limone e si sta rilassando in poltrona. Qualche ora più tardi, dopo aver bussato ripetutamente alla sua porta, una vicina chiama la polizia: Lieselotte è morta, strangolata con il filo usato per legare i fiori che ora giacciono sparsi sul tavolo.
Marzo 2001, Friburgo, sempre in Germania ma al confine con la Svizzera. Joseph Walzenbach, antiquario 61enne, viene ritrovato senza vita in casa. È stato strangolato con uno spago da giardino. Dall’abitazione mancano solo 200 euro.
Ottobre 2001, Gerolstein, di nuovo in Renania. Un ragazzino di 7 anni si punge con una siringa in un parco giochi. La mamma, terrorizzata all’idea che possa aver contratto l’Hiv, la fa analizzare. Il piccolo non è in pericolo, ma i risultati, inviati alla banca dati centrale della polizia, conducono a una scoperta sconcertante: il dna sull’ago, usato per iniettarsi in vena una dose di eroina, è lo stesso ritrovato sul bordo di una tazzina da tè di porcellana a casa della signora Schlenger e sulla maniglia della porta del signor Walzenbach. Ed è un dna femminile. Di una tossica, evidentemente, che uccide le sue vittime durante i furti. La killer, silente dal ’93, si è risvegliata.
Pochi giorni dopo un camion viene rapinato dalle parti di Mainz. Sul selciato, un biscotto smangiucchiato: la saliva restituisce ancora lo stesso dna. Nei rapporti gli investigatori la chiamano freddamente Uwp, «Unbekannte weibliche person» («persona sconosciuta di sesso femminile»), tra loro l’hanno soprannominata «la donna senza volto». Ci perdono la testa e il sonno.
Una taglia sul fantasma Quel codice genetico senza identità rispunta ovunque nel giro di 400 chilometri: in una rapina poco distante da Francoforte a Capodanno del 2003, in un’altra a Karlsruhe nel 2005, l’anno successivo supera i confini tedeschi e appare su una pistola giocattolo usata in un’altra rapina a Besançon, in Francia. E ancora in almeno una dozzina di furti con scasso fino all’Austria. Uno dei casi più bizzarri è a Worms, nel 2005. Come ci è finito l’ormai famoso dna su uno dei proiettili usati in una resa dei conti tra Rom?
Il 25 aprile 2007 la donna senza volto torna a uccidere, senza alcun motivo apparente. La poliziotta Michèle Kiesewetter, 22 anni, e il suo compagno di pattuglia stanno consumando il loro pranzo al sacco in un parcheggio di Heilbronn, cittadina del Baden Württemberg, quando all’improvviso qualcuno sale sul sedile posteriore della macchina e spara senza dare loro nemmeno il tempo di mettere mano alla pistola. Michèle muore sul colpo. Quando si risveglia dal coma, tre settimane dopo, il ragazzo non ricorderà nulla. Nell’auto, le tracce di dna della donna senza nome, che da quel momento sarà il fantasma di Heilbronn. Al funerale i compagni, in uniforme verde, sfilano con un ritratto di Michèle sorridente. La caccia alla killer fa un salto di qualità: è ormai la più grande indagine criminale nella storia tedesca recente, con una ricompensa di 300 mila euro per chiunque fornisca informazioni.
Nel team investigativo, come racconta un reportage del Guardian nel 2008, ci sono oltre cento tra poliziotti e procuratori, sostenuti dal laboratorio di analisi del Bka, l’equivalente tedesco dell’Fbi. Da tutta Europa arrivano segnalazioni e rinforzi. Nei momenti più disperati, gli inquirenti tenteranno persino la carta degli indovini.
Possibile che la donna senza volto cambi sempre complici? Quando si trovano tracce di altro materiale genetico non è mai due volte della stessa persona. Tamponi di saliva vengono prelevati a centinaia di donne senza casa, tossiche o con precedenti penali nel sud della Germania e della Francia, ma anche in Belgio e in Italia. Senza alcun risultato.
Il profilo del mostro Il capo della polizia Erwin Hetger non nasconde la frustrazione: «Non abbiamo un ritratto, un identikit, una descrizione, nemmeno un profilo criminale coerente». A tentare di fornirne uno, ai giornali, è il noto psichiatra viennese Kurt Kletzer: «Quella donna sa proiettare un’aura di normalità pur essendo esattamente il contrario. È costretta a uccidere per sfamare la sua inclinazione». Lo psichiatra immagina una infanzia difficile: «Forse una bambina adottata o orfana, che è stata abusata».
Gennaio 2008. Da un fiume nei pressi di Heppenheim, in Assia, affiorano i cadaveri di tre georgiani trafficanti in auto usate. Tra i sospettati un iracheno e un somalo. Sulla macchina del primo, il sangue di una delle vittime. E il dna del fantasma. I due fermati si accusano l’un l’altro, ma entrambi giurano di non sapere nulla della donna senza volto.
Finalmente però, grazie al testimone di un furto in appartamento, arriva un identikit. E lascia gli inquirenti di stucco: è un uomo alto un metro e 70, con il pizzetto. I poliziotti sono in imbarazzo: potrebbe essere lei mascherata, dicono, o un complice. Oppure un transessuale.
La caccia è chiusa La svolta vera arriva nel marzo 2009, sedici anni dopo l’inizio di questa storia. Nel tentativo di stabilire l’identità di un corpo carbonizzato in Francia, vengono riesaminate le impronte digitali lasciate sui documenti da un richiedente asilo. Ed eccolo di nuovo, il dna del fantasma. Ma le impronte appartengono a un uomo arrivato da poco in Europa; per di più, a un secondo prelievo, raccolto con un diverso tampone, il codice genetico non viene più rilevato. La soluzione del mistero è a un tratto lampante: dietro la donna senza volto, in realtà, si nasconde un caso di materiale contaminato.
Il fantasma ha finalmente un nome e un volto, ma non sono quelli di un serial killer. È l’ignara impiegata di una fabbrica di cotton fioc, che aveva contaminato con il suo dna decine di tamponi, destinati alle polizie scientifiche di mezza Europa. «Avevano un doppio incarto, pensavamo che fossero la Mercedes dei tamponi», dirà alla Bild un investigatore incredulo. Diciotto milioni di euro spesi, migliaia di ore di straordinari, e per tutti i delitti si torna al punto di partenza.
La prova scientifica si prende una parziale rivincita due anni dopo. Il 4 novembre 2011 la polizia insegue due persone in fuga dopo una rapina. Rifugiatisi in un camper, piuttosto che arrendersi Uwe Böhnhardt e Uwe Mundlos preferiscono suicidarsi. Poi le forze dell’ordine arrivano alla loro complice, Beata Zschape. Nel suo appartamento, gli investigatori trovano la conferma che il trio di neonazisti è responsabile dei cosiddetti omicidi del kebab, l’esecuzione a sangue freddo di dieci immigrati nell’arco di 13 anni. E della morte di Michèle Kiesewetter. Nell’armadio c’è una tuta con una piccola macchia di sangue: il dna è quello della giovane poliziotta di Heilbronn. Almeno lei, ha avuto giustizia.