Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  luglio 17 Lunedì calendario

Comuni in dissesto, serve un rating

Dopo anni di relativa calma la finanza degli enti locali ricomincia a navigare in acque agitate: le situazioni di dissesto proclamato dai Comuni stanno lentamente ma inesorabilmente crescendo e non sempre gli alert lanciati nelle crisi dagli indicatori del pre-dissesto riescono a far invertire la rotta in tempo.
Lo dimostra anche l’ultima fotografia scattata dalla Fondazione commercialisti, insieme con il Consiglio nazionale dello stesso Ordine, che ha analizzato «Lo stato di crisi degli enti locali», sia in chiave storica (con dati di Corte dei conti, Anci e Ifel che dal 1989 risalgono fino a oggi), sia in chiave prospettica, indicando alcune “ricette” per interventi mirati.
Dal 1989 – anno di nascita dell’attuale normativa sul crack finanziario negli enti locali – al 30 novembre scorso sono stati ben 556 i Comuni che hanno sperimentato il dissesto, pari al 7% del totale. Un numero che va già aggiornato con l’aggiunta, nei primi mesi del 2017, di altri sei realtà in default.
Smaltito il boom iniziale legato anche alla riforma delle regole (125 i crack del 1989), si è via via assistito a una diminuzione del fenomeno, che – come spiega lo studio – è stata piuttosto lenta, anche in virtù delle misure “incentivanti” introdotte, che consentivano di ripianare i debiti del default con mutui a carico dello Stato. La svolta è arrivata nei primi anni 2000, quando, in corrispondenza della rivisitazione del Testo unico degli enti locali e della riforma costituzionale del Titolo V, è scomparso l’incentivo dei mutui ammortizzati dallo Stato. Da quel momento la curva dei dissesti si è trasformata in una linea piatta, tendente verso lo zero. Per poi riprendere a salire dal 2008 in poi, arrivando al picco dei 24 dissesti del 2014 e ai 17 dichiarati lo scorso anno.
Tra i motivi dell’aumento ci sono anche le riforme contabili. Spiega Davide Di Russo, vicepresidente del Consiglio nazionale commercialisti e membro dell’Osservatorio congiunto tra ministero degli Interni, commercialisti, Anci e Ifel sul tema: «Ci sono situazioni pregresse sottovalutate finora, che stanno venendo alla luce solo adesso, in seguito all’armonizzazione contabile prevista dal decreto legislativo 118 del 2011 e scattata dal 2015 in poi».
Tra le ultime vittime dei crack anche realtà importanti come Benevento(dissesto dichiarato a gennaio scorso), che conta più di 60mila abitanti. O quelle più risalenti di Caserta, Potenza e Taranto. Ci sono enti locali arrivati al doppio dissesto e altri che a distanza di due decenni dalla dichiarazione non hanno ancora chiuso del tutto la procedura: tra questi – ricorda il dossier – c’è Ischia, che ha dichiarato il default nel lontano 1993.
Se poi si guarda a tutte le situazioni di crisi aperte, comprese quelle di “semplice” deficit o al pre-dissesto (in pratica, l’anticamera del default, con la differenza che il risanamento è affidato all’interno alle stesse giunte), i numeri sono molto più ampi: 325 gli enti con bilanci attualmente in pericolo. Di questi 67 sono quelli deficitari, 151 in pre-dissesto e gli altri, appunto, in dissesto conclamato.
La geografia delle difficoltà di bilancio parla chiaro: il fenomeno è presente solo in 11 regioni, ma con intensità massima al Sud e nelle Isole, che concentrano l’80% degli enti deficitari e dove dal 2011 al 2015 i default sono triplicati.
Le conseguenze della dichiarazione si vedono su più fronti. Verso i cittadini, perché l’ente può rialzare le tasse locali, superando il blocco imposto a livello nazionale dalle leggi di bilancio. Ma anche verso le imprese, soprattutto locali, visto che il dissesto – come ricorda il dossier – ostacola «l’ordinata estinzione dei debiti e dunque la salute economica dei fornitori». Ma c’è anche un impatto politico: il default provoca il commissariamento dell’ente e dunque «ne interrompe il funzionamento democratico».
Il dossier individua i punti deboli su cui intervenire per ostacolare la negativa tendenza all’aumento dei default. E suggerisce, in primo luogo, di rivedere i parametri di deficitarietà, perché gli attuali dieci indicatori di squilibrio sono troppi e andrebbero semplificati. Occorre anche introdurre un rating, sintetico, di salute finanziaria. «Al massimo tre indicatori – precisa Di Russo – che facciano emergere subito la reale situazione finanziaria dell’ente». Un punto, questo, su cui l’Osservatorio è già al lavoro. Infine, è necessario rafforzare i controlli preventivi sulle realtà più a rischio, che – come emerge dall’indagine – sono i Comuni con meno di 15mila abitanti.