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 2017  luglio 16 Domenica calendario

Pubblici ministeri e politica, un intreccio da sciogliere

Pubblici ministeri e politica. La «discesa in campo» dei magistrati fa calare la fiducia dei cittadini e può influenzare alcune scelte in chiave mediatica o elettorale. Senza aspirazioni politiche i magistrati sarebbero più indipendenti. Inoltre la corsa verso la politica contraddice la configurazione stessa del Consiglio superiore della magistratura come «rappresentante del potere giudiziario verso l’esterno». Perché i magistrati hanno bisogno di loro «rappresentanti», se possono far sentire autonomamente (una volta eletti) la propria voce? 
i pm possono fare politica», pare che abbia dichiarato nei giorni scorsi un magistrato. Non sono pochi i magistrati – specialmente i procuratori – che siedono in Parlamento, amministrano uffici ministeriali e locali, presiedono enti, si sono presentati a elezioni locali. 
É bene che si diffonda la figura del magistrato-camaleonte, politico locale o nazionale, oppure amministratore pubblico (in autorità indipendenti o semi-indipendenti, negli uffici del Ministero della giustizia)? Quell’ordine giudiziario che la Costituzione ha voluto indipendente, separato, può invadere gli altri poteri dello Stato? I magistrati possono imboccare a piacimento una porta girevole, che li conduce dentro e fuori qualunque altro potere dello Stato? A favore della figura del magistrato-tuttofare vi è un argomento importante: non è utile né alla società, né alla stessa magistratura che quest’ultima sia chiusa in una «turris eburnea». 
Non alla società, che non può essere divisa in categorie alla maniera del medioevo, deve potersi valere di tutte le risorse umane disponibili, non può tollerare chiusure, deve assicurare mobilità professionale. Non alla magistratura stessa, che può diventare ancor più autoreferenziale, «parochial» (come dicono gli inglesi), corporativa.
Questa politicizzazione che proviene dall’interno della magistratura, però, presenta anche inconvenienti. 
Il primo è così riassunto in un sondaggio recente di Swg: i magistrati fanno politica; cala la fiducia degli italiani. In effetti, nel 1994 il 66 per cento degli italiani aveva molta o abbastanza fiducia nei magistrati. Oggi solo il 44 per cento ne ha. 
Gli intervistati pensano che certi settori della magistratura perseguano obiettivi politici, mentre i magistrati non dovrebbero fare politica. Si tratta – ha commentato chi ha condotto il sondaggio – di «una vera e propria frattura in atto». 
Il secondo inconveniente è che il magistrato aspirante a una carriera politica può essere tentato di inserire le proprie ambizioni nell’attività di magistrato, per apparire in televisione o sui giornali, diventare noto, compiacere questa o quell’altra corrente dell’elettorato. 
Insomma, c’è il pericolo che la carriera politica sia costruita mediante l’esercizio della funzione giudiziaria (accusa o giudizio), alla ricerca di una «visibilità» acquisita mediante inchieste o giudizi spettacolari e di consensi da parte dell’elettorato, o di partiti, o di fazioni. 
Purtroppo, qualche conferma è data dalle candidature recenti di magistrati o ex magistrati che si sono presentati alle elezioni locali in aree contigue a quelle nelle quali avevano svolto le loro funzioni, acquisendo molta notorietà.
Questo distoglie dall’esercizio imparziale delle funzioni, invoglia alla spettacolarizzazione, può influenzare addirittura le decisioni, rompendo il vincolo più importante dell’attività del magistrato, quello del rispetto di indipendenza e terzietà.
Infine, questa corsa verso la politica contraddice la configurazione stessa del Consiglio superiore della magistratura come «rappresentante del potere giudiziario verso l’esterno». Se i magistrati sono così presenti nella vita degli altri poteri, quello legislativo (nazionale e locale) e quello amministrativo, che ci sta a fare il Consiglio superiore della magistratura? Perché i magistrati hanno bisogno di loro «rappresentanti», se possono far sentire autonomamente la propria voce?
I diversi punti di vista che ho esposto e le tante domande che vi sono connesse sono gravidi di conseguenze. Essi riaffiorano periodicamente nello «spazio pubblico», senza tuttavia giungere a soluzioni convincenti. C’è chi ritiene sufficiente che il magistrato chiuda la porta quando esce, e che non rientri in magistratura. 
C’è, invece, chi afferma che questo non basta, perché il male viene prima (le aspirazioni possono influenzare l’esercizio della funzione) e perché il magistrato non deve essere solo indipendente, occorre anche che appaia tale (e questo non accade se, dismessa la toga, va nelle piazze). 
La Costituzione fornisce una indicazione. I costituenti vollero la magistratura indipendente e pensarono che l’indipendenza consistesse sia nell’assenza di pressioni esterne, sia nell’assenza di «aspirazioni» dall’interno, perché – come disse uno dei costituenti – i magistrati sono «depositari dello jus imperii dello Stato», «che è qualcosa di immanente e superiore a tutte le maggioranze, ai partiti e ai governi».