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 2017  giugno 25 Domenica calendario

Lo strega ieri e oggi. Un premio tutto da rileggere

Il premio Strega, che arriva quest’anno alla sua settantunesima edizione, ha stabilito dieci giorni fa la cinquina dei suoi nuovi finalisti. I secondi settant’anni del concorso si aprono con un nuovo e sostanzioso allargamento della platea dei votanti: ai giurati tradizionali del Premio – i cosiddetti «Amici della domenica» – si aggiungono alcune centinaia di voti espressi da intellettuali, traduttori e circoli di lettura italiani ed esteri. Il tentativo è quello di alleggerire la pressione che gli editori esercitano, se non sulla scelta dei libri in concorso – ancora decisa, in sostanza, dai grandi gruppi – perlomeno sui voti che assegnano il premio finale. Il quale risulta in Italia il più prestigioso, il più commercialmente incisivo e al tempo stesso il più discusso, perché da sempre appannaggio di poche case editrici (le quali del resto tendono a fondersi tra loro da qualche anno a questa parte).
Cosa succederebbe se prescindessimo dalla reputazione dello Strega e da un bel po’ di chiacchiere e provassimo a farci un’idea del premio guardando solo ai titoli che se lo sono aggiudicato dal 1947 a oggi? Verificheremmo innanzitutto che nei suoi primi anni di vita lo Strega è stato sinonimo di un preciso stile Novecento, valorizzando, oltre a qualche figura emblematica del dopoguerra (La bella estate di Pavese), diversi libri belli e non banali – da Tempo di uccidere di Flaiano a Lettere da Capri di Soldati.Vedremmo poi che negli anni Cinquanta ha oscillato fra scelte tradizionaliste (Cassola, Bassani) e apertura a libri più coraggiosi e inclassificabili, come L’isola di Arturo di Morante o Il gattopardo di Lampedusa. La qualità media rimane comunque alta, e tale resterà fino a tutti gli anni Sessanta, quando si affermano romanzi anche sperimentali e per certi versi ostici per il grande pubblico, come Ferito a morte di La Capria o La macchina mondiale di Volponi. L’impressione che qualcosa si inceppi comincia negli anni Settanta, nonostante luminose eccezioni (La chiave a stella di Primo Levi): ma va detto che molti dei nostri scrittori più abili, in quel periodo, si allontanano dal romanzo e dal racconto tradizionalmente intesi, riserva di caccia dello Strega. Negli anni Ottanta e Novanta libri di valore (come Il sillabario n. 2 di Parise) s’impongono più raramente, a favore di bestseller meno indiscutibili (Il nome della rosa di Eco, La chimera di Vassalli). Tra i premiati degli anni Zero, poi, serpeggia un bel po’ di Midcult; anzi si può dire che in pratica c’è solo Midcult – salvo Starnone (Via Gemito, nel 2001) e forse Tiziano Scarpa, però non al suo meglio (Stabat Mater, nel 2009).
Riassumendo: senza coincidere con una lista dei titoli migliori del secondo Novecento, l’albo d’oro dello Strega ha rappresentato, fino a un certo punto, una mappatura abbastanza attendibile di un periodo della nostra cultura che assegnava un primato sicuro al letterario, con radici forti nella storia della lingua e nel culto dello stile. Il premio esprimeva un rapporto organico tra poteri editoriali e società delle lettere: i primi valorizzano autori non inaccessibili, la seconda resta esigente sul piano dell’artigianato formale e del dialogo con la tradizione È negli anni Ottanta che la qualità media dei vincitori conosce una flessione; da allora in poi lo Strega comincia a registrare il successo di una prosa pianificata per sedurre o intrattenere, più che per conoscere, secondo un’inclinazione che si afferma nel nuovo millennio. La ricetta prevede, rispetto al passato, meno attenzione alla lingua e meno ostacoli formali; stile più socievole, scorrevole e internazionale. Soprattutto più storytelling, con richiami extraletterari e ammiccamenti a temi alla moda.
Ma gli anni Ottanta, va ricordato, rappresentano anche il momento della ristrutturazione industriale della nostra editoria di narrativa; gli anni della “nuova narrativa italiana” escogitata dagli uffici stampa, dei giovani esordienti e di molti altri fenomeni di marketing letterario. Da quel momento in poi, e dagli anni Zero con più decisione, lo Strega sembra assumere un significato più sociologico che propriamente estetico: sia pure con molte approssimazioni contribuisce a fissare l’idea di letteratura – o meglio, di romanzo – che l’industria culturale (diventata un’industria vera e propria) trasmette al lettore globale e di massa. Ciò non rende le vicissitudini del premio meno appassionanti per chi si occupa di cultura letteraria (anzi...); ma è evidente che i libri italiani più belli usciti negli anni Novanta e Zero non emergono nella competizione, e spesso non vi accedono neanche.
Probabilmente ha ragione Emanuele Trevi, che perse lo Strega per due voti e ingiustamente, nel 2012, con Qualcosa di scritto: il premio acquisterebbe un valore artistico più netto se a selezionare i libri non fossero gli editori vincolati ai bilanci, ma trenta o quaranta narratori o poeti di quelli sensibili, oltre che ai meccanismi narrativi e alla forza delle storie, all’aria del tempo che spira nella lingua e nello stile delle opere. Peraltro proprio dal 2012 – edizione che col senno di poi andrà considerata di rottura – le cose sembrano migliorare, sul piano della qualità letteraria, nel segno dell’affermazione di testi più vivaci, più emblematici di una parte delle ricerche in corso. Un’evoluzione non riconosciuta nella giusta misura, forse in rapporto con il coevo allargamento della giuria tradizionale a un numero sempre crescente di lettori cosiddetti forti. Piperno, Siti, Piccolo, Lagioia e Albinati – vincitori di edizioni recenti – sono autori diversi, e di diverso livello; nessuno di loro (tranne Albinati) ha vinto col proprio romanzo migliore; ma restano scrittori rappresentativi di forze vive della nostra narrativa di oggi.
Arriviamo con questo alla cinquina attuale, che fornisce indicazioni interessanti anche se (o proprio perché) contraddittorie. Premesso che anche stavolta i due o tre libri più belli dell’anno al concorso non sono nemmeno arrivati, nei finalisti di oggi colpisce innanzitutto una costante tematica, in accordo con tendenze corpose manifestate dalla stagione in corso. Tutti e cinque i libri esibiscono una spiccata vocazione genealogica: sono configurati attorno a un sé che indaga sul passato. Si presentano come ricerca sulla famiglia, in particolare sui genitori perduti; quindi sulle fondamenta, sulle origini. Solo in È giusto obbedire alla notte, di Matteo Nucci, l’inchiesta viene esplicitamente trascritta nel codice del mito, e a condurla è una figura paterna e non filiale; negli altri casi i protagonisti combattono con gli antenati in un dialogo a volte letterale (Wanda Marasco, La compagnia delle anime finte; Teresa Ciabatti, La più amata), a volte metaforico (Alberto Rollo, Un’educazione milanese; Paolo Cognetti, Le otto montagne). Le vicende vengono calate in diverse cornici di genere, più o meno alla moda: il racconto autobiografico(Rollo), una pretesa autofiction (Ciabatti), un’epopea famigliare (Marasco), un romanzo d’avventura (Cognetti). Ma in tutti i casi s’indovina il bisogno comune di una resa dei conti col passato, e più specificamente con un nucleo novecentesco ricco di conflitti e di rimozioni. Sarebbe logico aspettarsi, dissimulato in questo tema, la ricerca di un nuovo rapporto con la tradizione narrativa stessa, e con la lingua letteraria del Novecento. Eppure, nei livelli profondi della forma le opere in cinquina risultano tutte estranee a quella tradizione – per motivi diversi e a volte contro l’intenzione degli autori.
No so quanto casualmente il libro che per ora guadagna più voti e consensi, Le otto montagne, è anche – tra i cinque – il più consapevole, e forse in fondo il più orgoglioso, della propria distanza culturale e linguistica da una certa tradizione italiana. Cognetti racconta l’amicizia tra due giovani in fuga dalla famiglia, dalla società e dalla storia – e lo fa con un linguaggio sobrio, concreto, come sverniciato da ogni orpello, in sintonia con la grande narrativa americana en plein air. Prodotto da esportazione di buona fattura, legato del resto a modelli importati. Potrebbe vincere lo Strega un romanzo che proprio con lo stile Novecento che fu tipico del premio intrattiene un rapporto di rispettoso distacco.