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 2017  giugno 25 Domenica calendario

Depeche Mode in tour, rivoluzione senza fine

Where’s the revolution? La risposta potrebbe essere retorica almeno quanto il titolo. Ma bisogna ammettere che come suggestione funziona. Richiama un passato glorioso del rock, quando era una sorta di colonna sonora del ribellismo di una generazione, fa pensare che le speranze di cambiamento non siano perdute (non importa se sia vero o meno), fa immaginare un futuro di sovvertimento, sogno antico forse capace anche di rivitalizzare la musica: bisogna solo crederci. Where’s the revolution, però, è anche il pezzo più riuscito, una sorta di bandiera dell’ultimo album della band di David Gahan e soci, Spirit, un album che cerca di interpretare il malessere diffuso dei nostri tempi, uscito all’inizio di quest’anno. E Where’s the revolution è il centro gravitazionale su cui ruota il tour dei Depeche Mode (che è intitolato Global spirit tour) che ora tocca anche l’Italia in tre tappe: la prima è questa sera allo stadio Olimpico, poi toccherà martedì a Milano, infine il 29 a Bologna.
LA CONFEZIONE
«Dov’è la rivoluzione? Su, gente, mi state deludendo» canta Gahan nell’album prendendosela coi patriotic junkies (i drogati di patriottismo) e ora la domanda viene girata al pubblico degli stadi in uno show curato almeno quanto l’album dal punto di vista della confezione, affidata ancora una volta a un maestro come Anton Corbijn, con cui i Depeche vantano una lunga collaborazione, che ha curato le sofisticatissime immagini che dominano il palco. E lo show comincia subito da una citazione, Revolution dei Beatles, per poi nei bis andare a un altro tributo quello che viene reso a David Bowie con un pezzo eroico come Heroes (canzone che David Gahan cantava in un locale londinese la sera in cui quelli che sarebbero diventati i suoi compagni di lavoro lo notarono e decisero di prenderlo con loro come cantante).
Quanto al resto, la scaletta si muove tra nuove canzoni come Corrupt e Cover me e classici immancabili come In your room, World in my eyes, Barrel of a gun, Home cantata come sempre da Martin Gore, Walking in my shoes, I feel you e Personal Jesus che fa da chiusura.
IL PIACIONISMOInsomma, la Depeche machine ce la mette tutta per affascinare il suo pubblico e lo fa puntando sull’eleganza, su un certo piacionismo spinto (del resto Gahan non lo ha mia nascosto e quest’anno ha fatto anche da testimonial per Dior). Ma l’intento è dimostrare che, dopo 37 anni di carriera, la band conserva in pieno la sua forza, mescolando le sue sofisticate suggestioni synthpop alle ruvidezze di alcuni testi, alla cura maniacale degli impasti sonori, alla padronanza nel gestire l’elettronica (anche se, almeno nel disco, viene fuori un eccesso di civetteria e un abuso di loop), all’insistenza su invenzioni d’atmosfera, a qualche incursione sul fronte disco, a citazioni psichedeliche.
Insomma, i Depeche provano a confermarsi come il momento di perfetta sintesi fra il pop digitale e il sudore del rock. Suggestioni (proprio come quella che evoca la rivoluzione), ma a rendere alla fine tutto carnale e terreno arriva poi la grande potenza vocale di David Gahan che resta l’elemento forte della band, come lo è stato fin dall’esordio nel 1980, quando con Martin Lee Gore e Andrew Fletcher dettero vita ai Depeche riuscendo subito a imporsi con prepotenza nella scena synth pop britannica.
I RISULTATI
E, se l’affermazione è stata immediata, quello che ha caratterizzato il gruppo nei decenni che sono passati è che il prestigio e il successo con lo scorrere del tempo sono andati crescendo, fino a far diventare la band un riferimento assoluto, una sicuramente delle più seguite e richieste, magari a prezzo di qualche concessione al mondo della dance alternativa ma ottenendo in cambio risultati eloquenti: come sono platealmente i 100 milioni di dischi venduti o i tour giganteschi come quello attuale che è destinato a protrarsi fino al 2018 inoltrato, mettendo insieme, è stato calcolato, un milione e mezzo di spettatori.