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 2017  maggio 26 Venerdì calendario

Una furia chiamata Ajax. «Non ci capimmo niente»

Tutto è passato così in fretta, quel pallone, quell’olandese, quella partita, quella vita. «Ho smesso presto perché troppo presto avevo cominciato, ero stanco in testa».
Silvio Longobucco, che cognome bizzarro. Faceva il paio con Cuccureddu. «Haller mi chiamava Ossobuco, ma sono stato tra i più forti terzini sinistri di fascia italiani».
Siamo a Belgrado, è il 30 maggio 1973. La prima finale di Coppa dei Campioni della Juventus, la prima delle otto, nove con Cardiff. Due vinte, ma una era l’Heysel, sei perdute. Nell’altra parte del campo, anzi proprio in tutte le parti si allargava l’Ajax che quella sera vestiva di rosso e non con la solita, inimitabile divisa da chierichetti. «Per venti minuti non ci capimmo niente, difensori che attaccavano, attaccanti che difendevano, il loro stopper barbuto Hulshoff che ci veniva addosso come un carrarmato. Non vedevamo la palla».
Quella palla. Cosa sono quattro minuti, i primi? Sono niente. Lo spazio tra ciò che non è ancora iniziato e ciò che non inizierà mai. «Ricordo un cross da lontano, morbido, non so di chi». Era di Blankenburg, un tedesco. «Ho vicino Rep, l’unico che in quella squadra non fosse un fenomeno. Salta e mi tiene giù col braccio sinistro, è fallo, bisogna fermare l’azione e invece l’arbitro lascia correre. E Rep è pure fortunato perché colpisce di nuca, ‘sto stronzo. Ne viene fuori una specie di palombella che Zoff non può raggiungere. Ricordo com’era infuriato, come gridava, Dino».
La paralisi bianconera da finale, sindrome che si sarebbe riproposta molte volte, fa la comparsa proprio quella sera. «La partita non la giocammo. All’Ajax bastò controllare, forse Bettega e Altafini potevano pareggiare. E naturalmente c’era Cruyff, un mostro che danzava sulle punte ed era anche alto, aveva una tecnica sudamericana. Il povero Morini che doveva marcarlo era disperato».
Silvio Longobucco era una riserva ed ebbe la sua occasione, lui che arrivava da Scalea e si trovò davanti personaggi che stavano cambiando la storia del calcio. «Un destino strano, però la mia Juve era formidabile. Tre scudetti in quattro anni. La finale però la sbagliammo prima nella testa: ci portarono per quattro giorni in ritiro a Novi Sad, dentro un’ex fortezza militare dove la tensione ci distrusse. Ci sentivamo in galera, e sui giornali vedevamo le foto degli olandesi a bordo piscina con mogli e fidanzate. E poi eravamo stanchi, a quel tempo le rose non avevano più di 20 giocatori. Ricordo le nostre facce tornando in albergo, il silenzio di Boniperti, il muso di Zoff, la mia rabbia per essere stato beffato dal giocatore più debole dell’Ajax».
Ci sono vite aspre e di apparente secondo piano, ma non contengono meno fatica o minor gioia. Silvio Longobucco lasciò la Juve per colpa di un cazzotto al milanista Gorin, e comunque nel frattempo erano arrivati Gentile e Scirea, ogni spazio si chiuse. «Ora faccio il pensionato, il calcio è uscito presto dalla mia vita, sono pigro e contento di me. Niente torna, e i ricordi neppure poi tanto».