Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  maggio 26 Venerdì calendario

Ma a Parigi, Londra e New York l’arte, i musei e le fondazioni parlano sempre più l’italiano

Gli italianissimi centurioni a guardia di Colosseo e Piazza Venezia a Roma guai a toccarli, il Tar del Lazio difatti li ha riabilitati neanche un mese fa. Se si tratta invece di dirigenti artistici colti e preparati, scelti dopo colloqui e rigorosi esami di curriculum, allora non va bene. Anche perché “sono stranieri”, ha scritto il Tribunale Amministrativo Regionale.
L’implacabile Italia del cavillo e della dittatura dell’”ovvero” ha colpito ancora. E, come spesso accade, nel nostro paese restano solo le polemiche, anche sui social network. Ieri sulla pagina Facebook di Repubblica si moltiplicavano commenti scandalizzati dei lettori: «Ho visitato molti musei, specialmente al Sud che sono rinati. Correte a visitarli, perché se torneranno gli italiani saranno di nuovo abbandonati!». E ancora: «Sono di Paestum e dopo due anni la nomina del nuovo direttore tedesco, Gabriel Zuchtriegel, abbiamo visto una rinascita della città». E infine: «Macron ha chiamato un’italiana all’Eliseo come suo consigliere speciale alla cultura. Cari signori, siete degli imbéciles».
Il lettore si riferisce a Claudia Ferrazzi, quarant’anni di Bergamo, appena scelta dal neopresidente francese dopo le esperienze di Louvre e al comune di Milano col sindaco Sala. Perché gli italiani che occupano posizioni sempre più importanti nelle istituzioni culturali straniere si moltiplicano. Proteste? Zero. Sentenze di tribunali amministrativi del Derbyshire o della Bassa Sassonia contro di loro? Neanche una. Quando nel 2015 Gabriele Finaldi, 51 anni, di famiglia italianissima, dopo aver guidato il Prado di Madrid è stato scelto come direttore della preziosa National Gallery di Londra, il Guardian ha scritto che «il solo obiettivo di questo museo è di innescare una narrazione culturale europea» (mica inglese), descrivendo Finaldi come l’incarnazione di un «racconto del Vecchio continente». Quando l’italiano Lorenzo Benedetti un paio di anni fa è stato per molti “ingiustamente” licenziato dal De Appel Art Center di Amsterdam, per lui si è mobilitata mezza intellighenzia della capitale olandese. E quando poi lo scorso febbraio Benedetti è stato scelto al timone del Kunstmuseum di San Gallo, in Svizzera i commenti erano del tipo «ma che gran colpo!».
Ma questi sono solo due esempi di un mercato, quello dei dirigenti artistici, che all’estero non soffre di simili storture protezionistiche. Nemmeno nei confronti degli italiani.
Per esempio, Massimiliano Gioni, già direttore artistico nella Fondazione Trussardi, a New York è direttore associato e curatore delle mostre al New Museum: «In Italia è difficile lavorare perché c’è paura del cambiamento», ha detto. La sua compagna Cecilia Alemani è, tra le altre cose, direttrice artistica dell’High Line, il grandioso giardino sopraelevato di New York. Poco più a Nord, al Metropolitan Museum “Met” c’è l’eporediese Marco Leona, responsabile della ricerca scientifica. Mentre Francesco Manacorda, dopo Artissima, a 43 anni è il direttore della Tate di Liverpool e Davide Gasparotto è senior curator del J. Paul Getty di Los Angeles. A Parigi, invece, Chiara Parisi è stata per anni direttore artistico della Monnaie, una delle più antiche istituzioni francesi.
E guarda caso anche il direttore di Ricerca e Sviluppo del leggendario MoMA di New York è un’italiana, Paola Antonelli, 53 anni di Sassari, che è pure Senior Curator del Dipartimento di Architettura e Design del museo newyorchese.
Antonelli, come la maggioranza degli italiani appena citati, è stata scelta attraverso un concorso pubblico (lei ha risposto a un annuncio su un giornale). Stesso percorso per Andrea Lissoni, senior curator of Film and International Art alla Tate Modern di Londra, monolite della Cultura britannica e mondiale. Contattato da Repubblica, Lissoni si dice «profondamente turbato» dagli effetti della sentenza del Tar. «Anzi, provo uno sconcerto assoluto. Alla Tate sono arrivato tre anni fa, in un bando pubblico aperto a qualunque nazionalità. Dopo tre esami, mi hanno preso. L’approccio della decisione del Tar è sconcertante», spiega, «non si deve peccare di esterofilia, ma avere dirigenti con esperienze pregresse in altri sistemi e contesti nazionali può portare contributi eccelsi e di una certa rilevanza, come credo sia accaduto anche a me. Dispiace, perché dopo la catastrofe degli anni Sessanta e Settanta, l’Italia avrebbe assolutamente bisogno di un’inezione di forze nuove, soprattutto a questo livello dirigenziale. Sono veramente dispiaciuto, Un paese non può chiudersi così». Concorda Francesco Bonami, direttore onorario della Fondazione Rebaudengo e per tanti anni Senior Curator prima al Museum of Contemporary Art di Chicago e poi della Biennale del Whitney di New York nel 2010: «In italia non accettiamo le selezioni in base al merito, c’è poco da fare. Soprattutto quando si parla di visione culturale. Se si prova a cambiare qualcosa, da noi vince sempre la moviola della burocrazia».