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 2017  maggio 23 Martedì calendario

Il boss in bicicletta freddato per strada. Dopo l’ergastolo era tornato in libertà

PALERMO Condannato all’ergastolo per omicidio, rapina e traffico di droga, ma libero già da due anni, l’hanno ucciso scaricandogli addosso un intero caricatore. Fra bimbi che andavano a scuola, ambulanti con pesce e verdura, nel traffico confuso delle 7.50. Come succedeva negli anni Ottanta, sembra un ritorno al passato peggiore, proprio ieri che era la vigilia del venticinquesimo anniversario dalla strage di Capaci. Un morto ammazzato nella Palermo della mafia bastonata da polizia e carabinieri. Celebrazioni e sangue. Con il corpo di Giuseppe Dainotti, 67 anni, abbattuto, dopo avere ottenuto acrobatici premi giudiziari, mentre pedalava sulla sua bicicletta, scivolata con lui sull’asfalto, a due passi dal Castello della Zisa.
Ed è su questo fondale monumentale che sembra andare in scena una bizzarra e sanguinaria opera dei pupi, se solo si pensa che un nemico giurato di Dainotti, un altro boss, Giovanni Di Giacomo, fu intercettato nel 2014, parlando con il fratello Giuseppe, quando per la vittima si stavano aprendo le porte dell’Ucciardone: «Dobbiamo vedere di farlo subito... di farlo scomparire a questo Gano di Magonza... appena esce perché ha le corna malate». E completò. «È un traditore nelle carni». Giusto per essere chiari anche con chi non conosce i personaggi della Chanson de Roland, a cominciare da Gano, pronto a tradire i Cavalieri e passare con i Saraceni.
Per i Di Giacomo finì male. Con Giuseppe ucciso da mano rimasta ignota, e Giovanni arrestato dai carabinieri che avevano ascoltato le minacce registrate dalle microspie. Un motivo in più per tenere d’occhio Dainotti, un tempo numero due del quartiere di Porta Nuova. Peraltro con altri nemici eccellenti alle spalle. Come Gregorio Di Giovanni, l’ennesimo boss di Porta Nuova, scarcerato da poco, e il fratello Tommaso, ritenuto il mandante dell’omicidio del penalista Enzo Fragalà.
Impossibile, però, tenerli sempre sotto controllo. Questo delitto, che nessuno può ancora derubricare come un semplice regolamento di conti, riaccende una questione allarmante. Quella dei boss che, dopo avere scontato la pena anche ottenendo premi consistenti, tornano in circolazione cercando spazi, sempre più ristretti. Non a caso era stato pochi giorni fa il questore di Palermo Renato Cortese, famoso anche per avere arrestato Bernardo Provenzano, a sottolineare la necessità di un controllo sempre più ravvicinato su questi «ritorni eccellenti», da Pino Scaduto a Giulio Caporrimo, da Antonino Messicati Vitale a Nicola Milano: «Sono in tanti a uscire, scontata la pena, in una Palermo cambiata, con spazi di manovra sempre più ristretti per i clan, per una Cosa Nostra sbandata, ma in cerca di un leader. E questo finisce per contrapporre i vecchi boss a capi e gregari già in difficoltà per l’azione repressiva dello Stato...».
La moglie di Dainotti, 48 anni, è incinta di 8 mesi. Quando ha visto il marito a terra ha avuto un malore. Nonostante la condanna all’ergastolo, il boss era riuscito a destreggiarsi bene fra i ricorsi presentati dopo la legge Carotti del 2000 per la riduzione a trent’anni. La sua storia era legata ai subbugli di Porta Nuova, il quartiere dominato prima del Maxi processo da «don» Pippo Calò, tradito da un discusso pentito, Salvatore Cangemi, del quale Dainotti era stato il factotum quando era finito in cella anche per una rapina di finanziamento alla «famiglia», il colpo miliardario al Monte dei Pegni di Palermo. E, prima ancora, per la lupara bianca di Antonino Rizzuto, scomparso nel 1989. Eppure, con questo curriculum, ora andava in giro in bicicletta.