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 2017  maggio 23 Martedì calendario

Il nuovo realismo americano

A Bagdad non si addice il «modello Westminster». Figuriamoci a Tripoli o a Damasco. Ma nemmeno al Cairo. E neppure a Teheran dove pure fortunatamente qualche giorno fa, alle elezioni, è prevalso l’«ayatollah moderato» Hassan Rouhani. È la fine del quindicennio (ma, calcolando i tempi di elaborazione, potremmo dire il trentennio) in cui gli Stati Uniti si sono impegnati nell’ardita impresa di esportare la democrazia nel mondo musulmano. La fine di quella stagione che ha avuto come protagonisti due capi di Stato agli antipodi l’uno dell’altro: George W. Bush e Barack Obama. Il primo ancor più impegnato in questa missione del secondo. Ed è bizzarro che il compito di annunciare solennemente la conclusione di questa era politica tocchi adesso al presidente che appare, con l’ovvia esclusione di chi gli ha dato il voto, come il più detestato della storia degli Stati Uniti. Anche (soprattutto!) fuori dai confini del suo Paese.
Donald Trump, parlando a cinquantacinque leader arabi venuti ad ascoltarlo al King Abdulaziz Center di Riad, è stato esplicito nell’accantonare l’esportazione della democrazia. E nello schierarsi a fianco delle leadership sunnite contro quelle sciite (Iran) a patto che esse si impegnino davvero e fino in fondo in vista della sconfitta dell’Isis (che, tra l’altro, è di matrice sunnita). Il sanguinoso conflitto tra sunniti e sciiti è in atto, a seguito di una divisione sull’eredità del profeta, da oltre tredici secoli (per la precisione dal 632, l’anno della morte di Maometto).
I sunniti rappresentano l’85% circa del mondo islamico, gli sciiti il 15. Negli anni Ottanta, ai tempi del conflitto Iran Iraq, gli Stati Uniti si schierarono con decisione contro gli sciiti. Poi, dopo la guerra del Golfo (1991), qualcosa cambiò: pur di proseguire nella destabilizzazione della dittatura irachena di Saddam Hussein, gli americani si concessero ad una politica delle alleanze più disordinata. L’11 settembre (2001) e la guerra all’Iraq (2003) fecero il resto: mentre noi occidentali ci raccontavamo che da quel momento avremmo iniziato a esportare in quelle lande, appunto, la democrazia cosicché, per effetto della nostra azione, il mondo arabo e musulmano avrebbe conosciuto, sia pure con una certa gradualità, lo stato di diritto con libertà di parola, di culto, garanzie per l’informazione e libere elezioni, mentre sognavamo tutto questo, da quelle parti (con qualche eccezione: Marocco, Tunisia) tutto è precipitato nel caos, alle guerre precedenti se ne sono aggiunte di nuove e siamo stati accusati di aver rivitalizzato il mondo sciita a danno di quello sunnita. Mondo sunnita che poi, – uscito ulteriormente sconquassato dalle primavere arabe (2011) anch’esse esaltate dagli Stati Uniti di Obama e dalle pressoché unanimi opinioni pubbliche europee – si è convinto di essere il reale bersaglio di queste politiche. Risultato? Gli establishment sunniti si sono vendicati fornendo linfa all’Isis per uno scontro che si svolge principalmente tra musulmani talché, come ha sottolineato Trump al cospetto dei leader arabi, il 90% delle vittime del terrorismo allo stato attuale appartiene al mondo islamico. Non è l’Islam il nostro nemico, ha tenuto a sottolineare il Presidente statunitense, sono i terroristi e solo i terroristi.
Certo, l’Arabia Saudita – dove Trump domenica scorsa ha pronunciato questo interessante discorso – negli Stati Uniti è guardata con sospetto perché di lì provenivano quindici dei diciannove attentatori delle Twin Towers. Per di più al Qaeda ricevette generose sovvenzioni anche da membri della famiglia reale di Riad. Lo scorso settembre negli Usa è stata data luce verde al Jasta (Justice Against Sponsors of Terrorism Act) che consentirà ai familiari delle vittime dell’11 settembre di fare causa per ottenere nei tribunali americani risarcimenti dall’Arabia Saudita, ciò che potrà portare al sequestro di beni sauditi in territorio statunitense. Per la cronaca Obama allora si pronunciò contro tale decisione e Trump gli replicò che avrebbe dovuto «vergognarsi». Inoltre Riad guida in Yemen una coalizione arabo sunnita contro gli Houthi, sciiti zayditi, sostenuti dall’Iran. I sauditi bombardano ospedali e massacrano popolazione civile, come è avvenuto in Siria sia pure a parti invertite (lì erano i sunniti a subire i danni). Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, i sauditi, per interposta fazione, sono responsabili del 60% delle morti di bambini in Yemen. Altre accuse sono poi venute dal New York Times per il quale gli Usa, negli otto anni di presidenza Obama, hanno venduto all’Arabia saudita armi per un valore di 110 miliardi di dollari. E – come annunciato da Trump – altre, per un valore ancora più grande, ne giungeranno adesso. E saranno vendute – come è ovvio che sia – non per essere riposte in qualche deposito bensì per essere utilizzate in conflitti, primo tra tutti quello dello Yemen. Altro che esportazione della democrazia. È un problema, quello che si evidenzia nel conflitto yemenita, messo in risalto anche dai principali alleati degli Stati Uniti. In dicembre il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson ha accusato l’Arabia Saudita (ma anche l’Iran) di condurre in Medio Oriente «guerre per procura». Ci sono personalità di quei mondi – ha detto Johnson – che «abusano» della religione nonché degli attriti e divisioni all’interno di uno stesso credo religioso per perseguire obiettivi politici. Theresa May – in evidente anticipo su Trump – lo aveva sconfessato affermando che Riad sta combattendo nello Yemen una «guerra giusta» a sostegno del governo legittimo. Le conseguenze delle cose che sono state dette da Trump l’altroieri in Arabia Saudita, ieri in Israele e che oggi verranno presumibilmente ribadite in Italia, dovrebbero consistere in una politica realista basata su alcuni punti espliciti: il terrorismo dell’Isis è il nemico principale; da abbattere è, prima o poi, il regime di Damasco e dobbiamo stare in guardia anche da quello di Teheran; gli Stati sunniti sono nostri alleati, dobbiamo esortarli a non commettere efferatezze che potrebbero metterci in imbarazzo ma ciò che in verità dobbiamo ottenere è che rompano ogni legame con il terrorismo islamico. E che lo combattano davvero. Per quel che riguarda i passi avanti per la conquista della democrazia, facciano come meglio credono. L’Occidente – stando almeno a Trump – non ne vuole più sapere. Anzi, dobbiamo guardarci da coloro che – in nome della democrazia o dello stato di diritto – soffiano sul fuoco di ogni potenziale controversia. Ne ricaviamo l’impressione che negli Stati Uniti non sarebbe concepibile oggi un «caso Latorre». Non potrebbe accadere cioè quel che è capitato al presidente della commissione Difesa del Senato, Nicola Latorre, il quale, per aver soltanto detto che riteneva più efficace al fine di far fare passi avanti all’indagine sull’uccisione di Giulio Regeni, mandare nuovamente il nostro ambasciatore al Cairo, è stato maltrattato e zittito senza che neppure venissero presi in considerazione i suoi argomenti.
In America da adesso in poi si tornerà all’antico e i buoni rapporti con i regimi sunniti (che a questo punto sarebbe da ipocriti anche definire «moderati») verranno prima di ogni considerazione sull’esercizio delle libertà e sul rispetto delle garanzie in quei Paesi alleati. Chi mai sognò anni fa che un giorno pur lontano anche a Riad si sarebbe – per così dire – affermato il modello Westminster in virtù del quale conservatori e progressisti avrebbero corso in una libera competizione elettorale e si sarebbero disputati la guida del governo in un contesto di libertà, garanzie e rispetto reciproco, dovranno svegliarsi. Del resto, pur senza voler proporre paragoni, anche qui in Italia il modello Westminster, quell’idea di una pacifica e ben regolata alternanza di governo ottenuta per via elettorale come accade in Gran Bretagna da qualche secolo, negli ultimi tempi si è andata sempre più allontanando dalle agende politiche. Fino a svanire all’orizzonte.