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 2017  maggio 19 Venerdì calendario

Dai primi passi in Vietnam all’Fbi. I segreti del super segugio Mueller

Chi conosce bene Robert Mueller, procuratore speciale che dovrà indagare sui legami tra la Russia e la campagna per l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, spiega che bastano tre cose per capire tutto di lui. La prima: studente di Princeton nel 1968, giocatore di lacrosse (una specie di hockey su prato), viene a sapere che il suo migliore amico David Hackett, ex compagno di squadra, è stato ucciso in Vietnam da un cecchino.
Robert – «Bobby», diminutivo che gli è rimasto attaccato anche adesso che ha 72 anni – parte volontario nei marines: «David era la persona che volevo diventare», ha detto di recente a un gruppo di studenti. Finirà il servizio militare da ufficiale pluridecorato.
La seconda cosa: Mueller nel 2002 si trova a una di quelle cene nei salotti di Washington che ha poi imparato a evitare. Qualcuno insulta uno dei commensali, avvocato d’un prigioniero di Guantanamo: «Come si fa a proteggere quella feccia?». Mueller, solitamente taciturno, si alza e propone un brindisi. Alla salute dell’avvocato: «Ha fatto quello che un americano ha il dovere di fare».
La terza cosa che spiega tutto di Mueller: nominato da George W. Bush all’Fbi, agenzia che aveva trovato allo sbando e che ha cercato di convertire da macchina ingovernabile e tormentata dagli scandali in moderna agenzia antiterrorismo, si trova dopo dieci anni – con il mandato in scadenza – a preparare le valigie.
È il 2011. Il capo dell’Fbi non è considerato rinnovabile perché di direttore a vita l’Fbi ne ha avuto uno ed è bastato: il fondatore J. Edgar Hoover che trasformò l’agenzia in quella che il presidente Truman aveva definito «una Gestapo americana». Obama e il Congresso repubblicano si trovano d’accordo su una cosa: chiedere a Mueller di restare ancora due anni. Lui accetta.
Dal 2013, con l’arrivo di Comey, finalmente lascia. Niente pensione: prima gli chiedono di mediare l’accordo sullo scandalo sulle emissioni della Volkswagen, poi la Lega di football gli chiede di fare da garante e lanciare un’indagine interna quando un video mostra un campione massacrare di botte la fidanzata.
Il segreto di Mueller è quello che lui riassume in una parola sola: «Integrità».
Tutt’altro che showman ma abilissimo – al contrario dell’appena licenziato James Comey – a navigare le infide acque della politica di Washington.
Se Comey è stato il direttore dell’entrata a gamba tesa – due volte – sulle elezioni del 2016, a pochi giorni dal voto, in nome di un malinteso senso del rispetto formale delle regole, Mueller è stato il direttore che al settimo giorno di lavoro (arrivava all’alba e tornava a casa per ultimo mettendo alla prova la resistenza di collaboratori di 40 anni più giovani) ha visto in tv le Torri Gemelle crollare e ha ricevuto da George W. Bush un mandato solo: «Non deve più succedere». Eccolo allora lavorare da una parte alla costruzione del consenso tra gli agenti e dall’altra ai rapporti distaccati – ma cauti e mai segnati dall’arroganza – con la politica.
In queste ore i commentatori tv lo indicano come la scelta più razionale per reggere un’indagine che il presidente, suo obiettivo primario, ha già definito «una caccia alle streghe» facendo prevedere che ci aspettano mesi bruttissimi (Trump ha come tutti i presidenti il potere di concedere la clemenza a chiunque voglia: non è mai successo prima, ma se desse il via al «liberi tutti» affrancando i suoi collaboratori sotto inchiesta e disarmando Mueller?).
È un compito tremendo, ma Mueller ha il senso dello humour. Anni fa, all’Fbi, durante una riunione gli capitò di fare una tremenda sfuriata, cosa rarissima per lui.
Il suo capo dello staff (e suo grande amico da un trentennio) lo lasciò finire poi chiese ai presenti: «Che differenza c’è tra un bambino di quattro anni e il direttore dell’Fbi?». Silenzio. «La statura».