Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  maggio 19 Venerdì calendario

La Francia è travolta dal debito

Pur essendo stato per quasi due anni ministro dell’Economia; pur avendo visto da vicino il disastro della spesa pubblica esagonale che divora il 56,4% del pil francese; pur avendo assistito (impotente?) alla crescita del deficit che ormai colloca la Francia all’ultimo posto della graduatoria (al 19° posto su 19) dei Paesi dell’Eurozona che non rispettano gli ormai ben noti parametri di Maastricht (il tetto del 3% del rapporto deficit/pil); pur avendo osservato (con costernazione, s’immagina) il continuo inesorabile lievitare del debito pubblico, arrivato al 96,3% del pil, in termini assoluti 2.147miliardi di euro, 32 mila euro l’anno per ciascun contribuente (neonati compresi); ecco, pur essendo stato testimone di una situazione economica quasi «pre-rivoluzionaria» (e stiamo pensando alla Rivoluzione francese e alla crisi del debito pubblico dell’Ancien Régime, anche se la storia non si ripete), il neopresidente Emmanuel Macron, sul tema, non ha mai detto una parola chiara.
Né prima, durante la campagna elettorale delle presidenziali, né ora che è «à la manette», come si dice qui, alla guida dello Stato.
È stato sempre «assez flou», abbastanza nel vago (come del resto quasi tutto il suo programma, «ni de gauche ni de droite») come ha scritto Dominique Seux, uno dei senior editor del quotidiano economico «les Echos». Basterà aver nominato al suo posto a Bercy, sede del Ministero dell’economia, due politici di destra, liberali quanto basta, come l’ex ministro dell’Agricoltura ai tempi di Sarkozy, Bruno Le Maire (battuto sonoramente alle primarie del partito repubblicano con un misero 2,4%) e come Gérald Darmanin, 34 anni che fa politica da 16, abile come si conviene (i suoi amici lo chiamano Gérard Dar-malin, Gerardo il Furbo) al punto da diventare il portavoce di Sarkozy nel 2015?
La Maire ministro dell’Economia, e Darmanin ministro della Funzione Pubblica e «des comptes publics» (cioè del Bilancio), forse, sono un primo segnale che il neopresidente, prudente e silenzioso fino a questo momento, ha deciso di dare una sterzata, per quanto possibile, ai conti pubblici.
Non sarà semplice. In dieci anni, dal 2007 a oggi, lo stock del debito è salito di ben 30 punti, dal 64.3% al 96,3 come ha certificato nei giorni scorsi l’Insee, l’Istat francese. Un balzo del 50% in un decennio (nel decennio difficile della Grande Depressione mondiale con la crisi della finanza derivata e il crack di Lehman Brothers) che, però, non ha messo in allarme la classe politica francese, non ha suscitato nessun dibattito e non ha smosso nessun candidato all’Eliseo (tranne, va ricordato, François Bayrou, ora alleato di Macron e terzo classificato alle presidenziale del 2007 dopo Sarkozy e Ségolène Royal, che all’epoca lanciò il primo, e unico, allarme sulla crescita del debito).
Ora la situazione è al punto di rottura, non solo per il livello del debito (l’azienda Italia, da questo punto di vista, è «tecnicamente» fallita con il suo 134%) ma anche perché la fine della politica monetaria accomodante della Bce (gestione Draghi) è vicina, vicinissima. E con essa la fine della stagione dei tassi bassi che hanno, per un periodo, ridotto il costo del servizio del debito.
E allora, che fare con la ripresa dei tassi? Tassare ancora di più i francesi (la pressione media è al 44,6% con punte del 75% per le grandi ricchezze)? Non è questa la strada possibile per il risanamento dei conti. Ci vuol ben altro. C’è una sola cosa da fare: dismettere, privatizzare, vendere pezzi di quel kombinat finanziar-economico-industriale che, come la nostra vecchia Iri e anche peggio, tiene sotto l’ombrello dello Stato settore elettrico (Edf, Areva, Engie ), automotive (Renault, Psa-Peugeot ), aeronautica (Air France, Airbus ), trasporti (Sncf, Rapt, Thales ), aeroporti (Adp-Aeroports de Paris ), telefonia (Orange), banche (Bpi ), perfino lotterie (Fdj, Française de Jeux ).
La domanda è: ce la farà, il liberale Macron (attraverso i suoi ministri La Maire e Darmanin), non si dice a smantellare questo colossale apparato che negli ultimi dieci anni (mentre il debito cresceva dal 64 al 94%) ha perso 90 miliardi di euro di valore, da 148 a 58 miliardi di capitalizzazione (vedere ItaliaOggi del 4 maggio), ma ad avviare, almeno, un programma di dismissione delle partecipate meno strategiche?
Da tempo si parla di vendere i giochi (la Française de Jeux) e gli aeroporti e di ridurre la partecipazione in Orange, in Renault, in Psa-Peugeot. Lo stesso Macron, dopo aver lasciato il ministero dell’Economia, in un’intervista al Figaro (febbraio 2016) aveva dichiarato che «Orange non è un’azienda del settore nucleare né del settore difesa e non fornisce un servizio pubblico», facendo intendere che forse quel 40% di partecipazione pubblica nel colosso della telefonia poteva essere comodamente ridotto.
Poi, durante la campagna elettorale, è sceso il silenzio. Di privatizzazioni non ha più parlato. Restano solo le sue dichiarazioni al Figaro: «Nous devons nous interroger sur la pertinence de la présence de l’Etat entreprise par entreprise», bisogna interrogarsi sulla presenza dello Stato in economia, azienda per azienda. Ancora una volta, prudenza. Un segnale che il liberale Macron farà molta fatica a smontare il capitalismo di Stato nel Paese più dirigista d’Europa.